Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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Iddio ha fatto l’uomo a sua propria immagine»

      Quando De Vincenzi scese dal tassi davanti alla Chiesa Evangelica di Piazza Mentana, la facciata del fabbricato, sotto il sole, appariva ermetica. Tutte le finestre chiuse e la grande porta coi battenti di quercia scolpita.

      De Vincenzi al primo momento si chiese come avrebbe fatto ad entrare. Poi vide che il corpo centrale della Chiesa continuava in una casettina più bassa e scorse il bottone del campanello tra gli intagli di una porticina rettangolare.

      Venne ad aprirgli una donna in grembiule nero. Aveva il volto ossuto, energico, stranamente bianco, d’un biancore che si sarebbe detto argenteo, tanto era privo di toni caldi. I suoi capelli erano grigi e a metà coperti da una cuffia di pizzo nero. Lo guardò senza nulla chiedergli e si trasse da parte per farlo passare. Lo attendevano. La donna corse avanti ad aprirgli una porta in fondo al corridoio, a piè di una scaletta buia.

      Il commissario si trovò in una sala vasta, divisa da un arco basso. Le pareti calcinose, nude; i pochi mobili scuri; un lungo crocefisso dietro lo schienale della poltrona, posta davanti a una larga scrivania coperta di opuscoli, di libri, di carte. Dalle inferriate della finestra alta da terra come quella di una prigione, attraverso i vetri coperti di tende opache, filtrava una luce sbiadita, da acquario. La stanza era piena di angoli bui.

      Gli venne incontro un uomo ancor giovane, bruno, dagli occhi lucenti e vividi, dalle labbra carnose e troppo rosse sui denti smaglianti.

      — L’aspettavo!… Mi hanno trattenuto più di due ore in Questura!

      Aveva la voce calda e sonora; dura, però, e distaccava le parole in modo che ognuna vibrava da sola.

      — Me ne dolgo… – disse il commissario, avanzando. – Ma la scoperta dei due delitti è stata fatta con una successione così rapida…

      — I due delitti? – chiese il Pastore, con meraviglia. – Io non sono stato informato che della morte del povero Giobbe Tuama. Chi è l’altro ucciso? Spero che la giustizia divina non si sia accanita contro la nostra confraternita e che non si tratti di un altro fratello…

      — Uno straniero… Un amico di Jeremiah Shanahan, però…

      — Ah!

      Gli occhi del giovane fissavano dirittamente l’interlocutore. Fece un gesto, con la mano e indicò il divano di cuoio nero, sotto la finestra. De Vincenzi sedette e il Pastore gli si mise accanto.

      — Vuol darmi qualche particolare? È inaudito che abbiano ucciso un uomo a quel modo… in una pubblica piazza… e ne abbiano potuto nascondere il cadavere sotto il banco, senza che i sorveglianti si sieno accorti di nulla!…

      — Lei sapeva che Giobbe Tuama si chiamava in realtà Jeremiah Shanahan?

      — L’ho saputo da poco. Nel nostro culto non esiste il sacramento della confessione. Il fedele comunica direttamente con Dio e confessa al Signore i suoi peccati…

      — E i suoi segreti.

      Il Pastore lo guardò.

      — I segreti dei nostri fratelli non riguardano che la coscienza di ciascuno di essi.

      — La coscienza di Giobbe Tuama doveva essere particolarmente carica!

      Di nuovo gli occhi del giovane dardeggiarono rapidi in volto al commissario.

      — Perché insinua questo?

      De Vincenzi eluse la domanda.

      — Uhm!… È un’ipotesi… prodotta dalle prime impressioni…

      Si guardava attorno. Cercava di rendersi padrone dell’ambiente, così come sempre era solito fare; ma questa volta l’impresa gli si presentava difficile. Il vasto stanzone, pieno di ombre, con quell’arco nel mezzo, che creava come un’altra stanza al di là del limite segnato dalla luce della finestra, si mostrava freddo e lo respingeva.

      Vedeva di scorcio la scrivania, la poltrona, il Cristo gigantesco con le piaghe sanguinanti al costato. Di fronte una porta nera, chiusa.

      Anche il Pastore appariva freddo e per nulla accogliente. Il volto abbronzato dalla mascella pesante e sporgente, gli occhi così lucidi da sembrare di vetro, non avevano una sola vibrazione che non fosse di attesa circospetta e di diffidente riserbo.

      De Vincenzi tentò rompere quell’atmosfera di ghiaccio. Cercò dare al colloquio un calore umano, un’intensità magari drammatica con quei due morti – poiché, continuando a quel modo, non poteva sperare di recar con sé dalla visita una sola sensazione, per non parlare d’informazioni, utile al suo scopo.

      — Mi ascolti, la prego, reverendo. Ci troviamo di fronte a un dramma quanto mai complesso e misterioso.

      Il Pastore l’interruppe.

      — Io non so nulla di quel che è avvenuto. Perciò le ho chiesto d’illuminarmi.

      — Sono pronto a farlo; ma… in compenso ella deve darmi il suo aiuto.

      — Non vedo in che modo potrei aiutarla nel compito di ricercare l’uccisore di Giobbe Tuama.

      — Perché d’ora innanzi non chiameremmo il morto col suo nome… Jeremiah Shanahan?

      — L’abitudine me lo rende difficile…

      — Da quanto tempo conosceva l’ucciso?

      — Ho raccolto i ricordi, in vista di questo interrogatorio… Due ore di attesa nel corpo di guardia della Questura mi sono state largamente sufficienti… Fu nel 1929, che Giobbe Tuama… o, come lei preferisce, Jeremiah Shanahan, cominciò a frequentare regolarmente le nostre riunioni…

      — Lei era già Pastore nella Chiesa di Milano?

      — Lo sono dal ‘14…

      De Vincenzi calcolò rapidamente: eran passati vent’anni. Il Pastore doveva aver trascorsa la quarantina. Eppure, dimostrava molto meno.

      — Ma nel ‘19 avevo appena ripreso il mio posto dopo aver combattuto al fronte…

      — Capisco… E in quale conto teneva l’irlandese?

      — Era un perfetto cristiano.

      — Apparteneva al Consiglio della Chiesa?

      — Da un anno soltanto. La sua assiduità, la sua fede, lo zelo dimostrato nel far proseliti giustificavano pienamente l’elezione.

      — Non ha mai cercato di sapere di dove venisse, quale fosse la sua vita passata, che cosa facesse a Milano?

      — E perché lo avrei fatto?

      — Perciò ella non sa nulla di Giobbe Tuama?

      — Mi dica lei, commissario, come sono avvenuti i fatti.

      — Qualcuno ha ucciso il vecchio, strangolandolo. Deve ammettersi che sia stato un conoscente della vittima, perché altrimenti questa non si sarebbe fatta coglier di sorpresa, avrebbe gridato, ci sarebbe stata lotta… Forse, un intimo soltanto ha potuto compiere il delitto.

      Il Pastore ascoltava attentamente.

      — Giobbe Tuama conduceva un’esistenza solitaria. Non mi sarebbe facile dirle chi potevano essere i suoi intimi.

      — Beniamino O’Garrich, per esempio.

      — Perché proprio lui? – ma a De Vincenzi sembrò che il nome del colosso non lo avesse sorpreso.

      — Perché si conoscevano da molto tempo. Tutti e due nati in America da genitori irlandesi, avevano lavorato assieme nel Sud Africa, impiegati nella medesima società.

      — Ha già fatto molto cammino con la sua inchiesta, lei!

      — Non tanto, ad ogni modo, da sapere tutto quello che lei non mi dice.

      Il Pastore sorrise.

      — Può