Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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Si passò il dorso della mano sulla bocca. E, finalmente, raccolse il pacco. Vi erano due spilli, infatti, a tenere le piegature del giornale, ai due capi. Tastò l’involto e sentì ch’era molle: indumenti certo. Anche però qualcosa di duro in mezzo agli indumenti, che faceva da peso.

      Si avvicinò alla carretta di ferro, ancora vuota, e mise il pacco sul coperchio chiuso. Depose la scopa sui due ganci laterali. La lettera se l’era messa in tasca. Afferrò le stanghe e spinse la carretta. Si avviò lentamente giù per via Pasquirolo, verso piazza Beccaria, e la carretta di ferro cominciò a risuonare sul selciato.

      Arrivò davanti a San Fedele che era giorno chiaro.

      Aveva fatto il giro lungo e s’era fermato davanti alla Galleria a bere un caffè con la grappa, dal caffettiere ambulante, che lo squadrò due volte prima di servirlo, poiché non era suo cliente e non lo aveva visto mai.

      «Nuovo da queste parti? Al posto di chi v’hanno messo?».

      «Di nessuno. Sono di passaggio».

      «A spasso con l’Isotta Fraschini ve n’andate?».

      Lui non rispose. Non aveva voglia di chiacchierare. Quella storia dell’involto da consegnare alla Questura lo aveva messo di malumore… Afferrò di nuovo la sua Isotta Fraschini e se ne andò.

      Sulla porta di San Fedele, si fermò con l’involto fra le mani. A chi doveva consegnarlo?

      Un carabiniere lo guardava.

      «Mi dica… scusi!…».

      «Io non so nulla. Lì, sotto il porticato, c’è un agente».

      Lo spazzino affrontò l’agente, che stava fumando.

      «L’ho trovato sui gradini della chiesa di San Vito, al largo di via Pasquirolo…».

      «E qui lo portate?! Eppure, dovreste saperlo che c’è il Municipio…».

      «Gli oggetti perduti, lo so. Il dieci per cento di mancia. Ma leggete qui!».

      E gli tese la busta col foglio.

      L’agente lesse e rise.

      «Uno scherzo! Avete guardato dentro?».

      «No. Non voglio noie, io!».

      «Perché? È pesante? Che ci sia la testa d’una donna fatta a pezzi!».

      E rideva.

      L’uomo fissò l’involto che aveva tra le mani con un lampo di spavento. No! Una testa non poteva essere. Molle era. Il peso stava in mezzo, ma era troppo piccolo per essere una testa.

      «Beh! Andate là in fondo. Alla Squadra Mobile. Ci dev’essere ancora il commissario. Quello di notturna dorme, a quest’ora».

      Lo spazzino traversò il cortile e bussò a una porta, sulla quale aveva letto: «Squadra Mobile — Commissario Capo».

      Gli rispose una voce netta, cortese, una voce senza collera, senza nervi.

      «Avanti. Che c’è?».

      L’uomo si trovò dinanzi a un giovanotto bruno, vestito con eleganza, che lo guardava con occhi vaghi, ancora assorto a qualche suo pensiero o a una lettura.

      «Ho trovato questo, signor commissario… sui gradini di San Vito al Pasquirolo…».

      «E poi?».

      «C’era questa lettera assieme».

      Il commissario lesse la lettera.

      «Ebbene, date qui…».

      Prese l’involto, tolse gli spilli, li guardò — spilli comuni erano — aprì il giornale.

      Apparve un camice bianco, lindo, di quelli che indossano i medici o gli infermieri. Il commissario lo svolse e sul tavolo caddero quattro ferri chirurgici, brillanti, lucenti, acuminati come tutti i ferri chirurgici.

      Nient’altro.

      Lo spazzino guardava.

      Il commissario prese i ferri e li esaminò uno a uno. Riconobbe un bisturi e poi vide una specie di cacciavite, una forbice strana e una lunga pinza, con una rotellina alla punta.

      Il bisturi recava qualche macchia bruna. Gli altri ferri sembravano nuovi.

      Il commissario suonò il campanello e poco dopo apparve il piantone.

      «Il brigadiere Cruni» ordinò, sempre con quella sua voce cortese.

      Il piantone scomparve.

      Cruni arrivò ancora assonnato. Era basso, muscoloso, col corpo troppo lungo e massiccio sulle gambe corte.

      «Dottore, che è accaduto?».

      «Fate un verbale di consegna di oggetti trovati e prendete le generalità di quest’uomo…».

      «Sì, cavaliere… Venite con me, voi…».

      Rimasto solo, il commissario De Vincenzi toccò il camice, lo sollevò, guardò i ferri chirurgici, prese il bisturi e l’osservò con attenzione. «Macchie di sangue» mormorò. Alzatosi, andò a chiudere tutto in un armadio. Poi tornò a sedere al suo tavolo e prese dal cassetto il libro che stava leggendo. Era l’ultimo romanzo di Kormendi. Lui leggeva tutto.

      Ma quasi subito alzò gli occhi dalla pagina e fissò l’armadio. Sul tavolo era ancora spiegato il foglio con quella strana preghiera e la busta.

      Chi mai aveva abbandonato quattro ferri chirurgici, tra cui un bisturi macchiato di sangue e un camice bianco?

      Prese il foglio ed esaminò la scrittura di quell’unica riga. Doveva essere stata vergata di furia, con la stilografica. Non sembrava artefatta: chi aveva scritto o era tranquillo di sé o aveva la sicurezza che non lo avrebbero pescato mai. Tutt’al più aveva fretta.

      Lasciò cadere il foglio sul tavolo e guardò l’orologio: quasi le sette. Pronunciò forte, con un sorriso amaro, leggendo sul calendario, che aveva davanti: «Alle 8 e 30 il Sole entra nel segno dell’Ariete… e alle 14 e 28 comincia la primavera».

      Strappò il foglio dal calendario e apparve il 21 marzo, tutto nero.

      «Ariete…» mormorò ancora. «Se credessi agli Oroscopi!».

      E alzò le spalle. Ma credeva agli Oroscopi, come credeva a tante altre cose, compresi il malaugurio, la telepatia e i presentimenti. Era superstizioso.

      Perché gli avevano portato quattro ferri chirurgici e un camice bianco, proprio il primo giorno di primavera?

      Che doveva farsene? Nulla, evidentemente. Così da soli, quella lettera e quell’involto non potevano permettergli di far nulla, né come commissario di polizia, né come uomo. Pensarci, poteva. Questo sì.

      Il giornale in cui erano stati avvolti era il Corriere del 20 marzo. L’osservò e non trovò nulla di speciale. Lo piegò e lo mise nel cassetto.

      Nel pomeriggio, al suo ritorno in ufficio, avrebbe mostrato i ferri a un medico, per saperne qualcosa di più. E poi avrebbe atteso. Poteva darsi che non accadesse più nulla, come che accadesse qualcosa o che fosse già accaduto.

      Un delitto?

      Bah! Chiuse il libro e lo mise nel cassetto, si alzò, indossò il soprabito, prese il cappello e, giunto alla porta, spense la luce.

      Dalla finestra bassa sul cortile, attraverso l’inferriata robusta e polverosa e i vetri chiusi, più polverosi ancora, entrò la luce scialba del giorno.

      De Vincenzi mandò un sospiro. C’era abituato ormai ad andare a letto quando il sole era già alto, che tutte le notti quasi le passava in Questura, a lavorare o a leggere. Eppure, ogni mattina sospirava. Poiché ogni mattina, alla vista del nuovo giorno, senza volerlo, pensava a quella sua casettina di campagna, nell’Ossola, dove era nato e dove sua madre viveva ancora, con le galline,