Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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invece, pensando che con cinquanta centesimi a quell’ora avrebbe avuto anche il biglietto di ritorno, Gualtiero Gerolamo prese il tranvai e alle otto precise si trovava davanti alla libreria di via Corridoni.

      Lui era stato padrone di libreria, e che libreria! Proprio sul Corso, con tutte le novità di Francia, i volumi più rari, le rilegature più belle. E faceva affari. E s’intendeva di libri come un bibliofilo. Ma era un artista e amava i letterati. Ed era, ahimè, incapace di dir di no ad alcuno, cosicché, dopo qualche anno, aveva dato migliaia e migliaia di libri a credito ai più illustri letterati e ne aveva ricevuto in pagamento delle gran belle e preziose fotografie con dedica. Tante fotografie da far invidia all’inventore di una lozione per capelli o a un medico di sciatica e artritismo. Ma poiché quelle fotografie non avevano corso legale, era stato lui che aveva dovuto chiuder bottega, con un attivo di crediti inesigibili quasi eguale a quello degli Stati Uniti dopo la guerra europea.

      Perciò s’era acconciato a diventar l’unico e solo impiegato della libreria antiquaria di via Corridoni, che apparteneva a un ometto piccolo e risecchito, il quale non faceva credito se non contro effetti cambiari e che non sarebbe fallito neppure se i libri vecchi non li avesse comperati più nessuno su questa terra, perché lui avrebbe trovato il modo di mandarli contro assegno in qualche pianeta.

      Quando fu davanti alla saracinesca del negozio, Pietrosanto si fermò a guardarla con inconsapevole stupore. Era la prima volta che se la vedeva abbassata davanti a quel modo. E vero che a mezzogiorno e alla sera era lui che la chiudeva; ma di aprirla, né alle otto del mattino, né alle due del pomeriggio, gli era mai capitato. C’era Giovanni che ci pensava. E quella mattina Giovanni, forse perché aveva il freno rotto alla bicicletta, non si faceva ancora vedere.

      «Oh! Come faccio!» si disse Gualtiero Gerolamo.

      Ma ricordò che la chiave veniva sempre consegnata alla portinaia dello stabile e, entrato nel vicino portone, la richiese con quella sua innata cortesia contenuta e piena di dignità.

      «Mi vuoi dare la chiave del negozio, per favore?».

      «Oh!» fece la portinaia. «Apre lei, stamattina?».

      «Ma già…».

      E si scusava come d’una colpa e quasi stava per aggiungere: «Non lo farò mai più!».

      Prese la chiave, tornò dinanzi al negozio, fece girare in basso le due serrature e sollevò la saracinesca. Apparve la bottega piena di libri, col bancone in mezzo, la scrivania pel padrone, il tavolo sepolto dalle carte, dalle schede, dai cataloghi, dove lui passava almeno otto ore al giorno a consultar volumi e a preparare un catalogo trimestrale, che era sempre in ritardo per la stampa e che non finiva mai, perché, quando era finito, ricominciava da capo.

      Entrò, senza neppur sospirare, tanto gli sembrava una novità piena d’imprevisto e di mistero il varcarne per primo la soglia a giorno nuovo.

      Andò nel fondo, accese la luce del corridoio e, passando in mezzo a due pareti di libri, entrò nel retrobottega, per levarsi il soprabito e il cappello.

      Il retrobottega era composto di due camere, una dentro l’altra, con una terza stanzuccia più piccola a destra della prima. E quelle tre camere, che aprivano le finestrelle, alte quasi al soffitto e munite di sbarre, sul cortile, erano anch’esse piene di libri vecchi. Tanti libri. Troppi libri. Un odore di polvere. Una luce da fondo di palude.

      Si fermò accanto al telefono, dove erano anche gli interruttori elettrici e li girò. Le tre stanze s’illuminarono di colpo e la gran massa dei libri, messi in fila contro le pareti, ammucchiati sui tavoli, accatastati per terra, presero rilievo, mostrarono i dorsi di pelle o di pergamena, i tagli giallastri e rugosi.

      Gualtiero Gerolamo aveva cominciato a togliersi il pastrano. Lo faceva con delicatezza, perché era nuovo dell’anno e, con la primavera che cominciava proprio quel giorno, se lo sarebbe ritrovato nuovo l’anno venturo.

      Lo prese con le due mani pel bavero e si diresse verso l’attaccapanni, appeso nella stanzetta di destra. Ma si fermò, fissò gli occhi miopi in basso, verso la soglia della porta, che univa la prima camera a quella di fondo. Si chinò un poco. Poi gettò il pastrano nuovo tra la polvere dei libri e fuggì pel corridoio, ansando ed emettendo qualche piccolo grido strozzato.

      Raggiunse la porta a vetri sulla via, si scontrò con Giovanni che arrivava, lo urtò, lo fece vacillare, uscì da sinistra, corse fino a metà di via Cesare Battisti e, quando vide il vigile di guardia al crocicchio, gli cadde addosso, esalando con voce soffocata: «C’è un cadavere!…».

      Poiché aveva il cappello in testa, il vigile capì che non era ubriaco. E in quanto a crederlo impazzito, questa è una supposizione che si fa di rado, se proprio uno non si mostra nudo in piazza.

      Sicché lo prese per un braccio e gli disse: «Si calmi! Dov’è il cadavere?».

      Poco dopo, davanti alla libreria era un gruppetto di gente, che un altro vigile, chiamato di rinforzo dal primo, teneva a bada, mentre Giovanni, lungo e dinoccolato come era, coi suoi sedici anni consumati a mangiare pagnotte senza assimilarle, diceva a tutti: «Io non so niente! Ci avevo il freno rotto alla bicicletta, io!».

      Nell’interno, Pietrosanto, seduto davanti al tavolo, fissava il vuoto, riacquistando gli spiriti a grado a grado come fa un pesce, che abbian tolto per troppo tempo dal vivaio e che abbian poi rigettato in acqua giusto a tempo per non farlo crepare.

      Il primo vigile, veduto il cadavere — la esistenza del quale lui, d’altronde, non aveva mai messa in dubbio — s’era affrettato ad avvertir per telefono il Commissariato di via della Signora e adesso attendeva, ritto in mezzo al negozio, fra tutti quei libri, che contemplava con un senso di stupore quasi sprezzante.

      «Lo conosce?».

      «Chi?» domandò Gualtiero Gerolamo, scuotendosi. «Il morto». «Non l’ho guardato!».

      «Tra poco, glielo faranno guardar per forza!». Pietrosanto inghiottì la saliva. «Era il padrone?».

      L’impiegato della libreria saltò in piedi. A quella possibilità non aveva pensato. Eppure era la prima ipotesi, che gli si sarebbe dovuta presentare alla mente. «Che dice?» gridò. «Ohe! Non gridi. C’è gente fuori!». E il vigile guardò con preoccupazione sulla strada, dove il gruppo degli sfaccendati s’andava sempre più infoltendo e s’agitava.

      «Il padrone!» ripeté Pietrosanto, a voce più bassa. «Vuol dire il signor Chirico?».

      «Chirico? Si chiama così il padrone del negozio? È lei che lo deve sapere!».

      «Guardi! Guardi lei! A me non pare. Il signor Chirico è un uomo d’età, basso, magro, brutto e pallido…». «Oh! Oramai, pallido lo è di certo!». E il vigile andò nel retrobottega. Quando tornò era grave. «Ha detto che è basso?». «Un po’ più alto di quel bancone». «Questo qui sarà un metro e ottanta per lo meno. Ed è molto elegante. Un vero signore». «Non è lui!» gridò di nuovo Pietrosanto. «Non gridi, le ho detto. Ecco il commissario». Gualtiero Gerolamo ricadde a sedere. Aveva ritrovato gli spiriti e sentiva che doveva perderli per sempre! Chi poteva esser mai quel vero signore alto un metro e ottanta che era penetrato di notte nel negozio, per farsi trovar cadavere da lui alle otto del mattino?

      Il commissario Maccari entrò lentamente, guardandosi attorno. Due agenti lo seguivano.

      «C’è veramente un morto?» chiese, tirandosi un poco indietro dalla fronte il cappello duro.

      «Eh! già» fece il vigile.

      «Ma si tratta proprio d’un delitto?».

      Il vigile si strinse nelle spalle.

      «Come ha fatto a entrare?» esclamò di colpo Pietrosanto, pensando sempre al defunto, e il commissario si volse verso di lui.

      «Che dice?».

      «Ah! Scusi. Pensavo…».

      «Ebbene?».

      «Mi domandavo come ha fatto quel cadavere