Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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E come posso saperlo? Iersera abbiamo chiuso alle sette e qui non c’era nessuno».

      «Proprio nessuno?».

      «Oh!» si contentò d’esclamare Gualtiero Gerolamo.

      Il Questore si voltò a Maccari.

      «È proprio certo che si tratta del professor Magni?».

      Per tutta risposta il commissario tese al suo Capo il portafogli che aveva trovato nelle tasche del morto. Il Questore guardò la tessera: «La tessera è la sua!» disse.

      Poi continuò a togliere dal portafogli quel che conteneva. C’erano carte. Appunti. Indirizzi. In una tasca interna il denaro. Contò più di tremila lire e diede un’occhiata a De Vincenzi.

      Maccari intervenne: «Sì. Gliel’ho detto al telefono. Non è stato derubato. Troverà l’orologio, gli anelli, la spilla…».

      «Ha chiamato il dottore?».

      «Sì, commendatore. È venuto da poco. Si trova ancora di là».

      «Ma allora ha toccato il cadavere!» esclamò De Vincenzi.

      Senza sorridere, con la sua tranquilla ironia, Maccari si volse al collega: «Se lo ha esaminato, certo che ha dovuto toccarlo! Ma gliel’ho raccomandato di non cancellare gli indizi».

      «La porta del negozio… questa qui…» chiese il Questore, indicando la porta della strada «era chiusa?».

      «Così dice lui» fece Maccari e accennò all’impiegato.

      «Chiusa!» interloquì questi. «E appunto perciò non capisco…».

      Il Questore non gli badò.

      «Non presentava tracce di scasso?».

      «Nessuna. L’ho esaminata. Può guardare lei stesso la saracinesca».

      De Vincenzi si avvicinò all’uscio dove si tenevano Cruni e i due agenti.

      «Nessun segno» gli disse Cruni. «Non c’è stata effrazione di certo…». «Ci sono altre porte?».

      Maccari prima di rispondere guardò interrogativamente Gualtiero Gerolamo.

      «La porta che dà nel cortile» disse Pietrosanto. «Ed era chiusa anche quella?». «Ma sì…» fece il povero Gualmo, che di guardarla non aveva avuto neppure il coraggio.

      «Ne è sicuro?… Beh! È inutile. Adesso vedremo noi» e il Questore posò una mano sulla spalla di De Vincenzi: «Cominci pure… Appena terminato qui, ce ne andremo… Lascerà il brigadiere nel negozio… Lei, Maccari, se non ha altro da dirmi, torni al Commissariato…».

      «Buongiorno, commendatore…».

      Maccari si diresse alla porta.

      «Debbo lasciare i miei agenti?».

      «È meglio» fece De Vincenzi. «Cruni penserà a sostituirli e a rimandarteli».

      «Come vuoi…».

      Stava per uscire. Si accorse di avere ancora in mano il volume dei Promessi Sposi. Lo guardò con rimpianto. Tornò verso il bancone, per lasciarlo.

      «Leggeva?».

      «Un bel libro, commendatore!».

      E posò il volume. Chi sa quando mai avrebbe ripreso a leggere la storia di Renzo e Lucia!…

      Una volta per la strada, vide il gruppo dei curiosi sempre più folto, alzò le spalle e si calò il cappello duro sugli occhi, con una mossa che gli era abituale.

      «Hanno tempo da perdere!» mormorò, allontanandosi. «E magari sarebbero felici, se potessero vedere il cadavere!».

      Dentro, il Questore s’era seduto davanti alla scrivania americana, che aveva il coperchio abbassato e chiuso a chiave, e De Vincenzi era andato nel retrobottega.

      «Che ha trovato, dottore?… Ah! È lei!».

      Era il dottor Sigismondi della Guardia Medica di via Agnello, quel ragazzone magro e patito, che aveva conosciuto in via Monforte, nell’appartamento del suo amico Aurigi, quando era stato assassinato il banchiere Garlini.

      «Buongiorno, commissario. Il professore ha ricevuto due proiettili nel cranio… Uno gli è uscito dalla guancia destra e l’altro deve trovarsi ancora dentro…».

      «Da quanto tempo è morto?».

      «Già» sorrise il dottore. «La solita domanda. E lei conosce la mia risposta. Da quanto tempo approssimativo. Ebbene, poche ore. Forse quattro o cinque appena. Forse anche più».

      «Verso le due o le tre della notte scorsa, dunque?».

      «Su per giù, a quell’ora» e fece un gesto. «Povero maestro! Quando mi avessero detto di doverlo rivedere in questo stato e qui dentro!…».

      «Lo conosceva?».

      Il medico ebbe un altro sorriso.

      «È stato mio professore di anatomia all’Università… Era il più giovane professore di Pavia… il più elegante… e, se posso dire così, il più galante… Tutti noi studenti ne eravamo gelosi…».

      «Gelosi?».

      «Non c’era studentessa, che non fosse innamorata di lui!».

      De Vincenzi guardò l’uomo, che giaceva ormai senza vita, sul pavimento polveroso di quelle stanze tetre. Un cadavere fra i libri! Ed era stato un bellissimo uomo, un esemplare magnifico della razza umana, un innamorato della bellezza, un amatore gagliardo e raffinato…

      Perché lo avevano ucciso? Perché gli avevano forato il cranio con due proiettili, a tradimento certo, dal di dietro?

      Era una vendetta? La vendetta d’un marito o di un amante geloso?

      De Vincenzi ricordò il camice bianco, i ferri chirurgici, il biglietto scritto con l’inchiostro azzurro da qualcuno che era sicuro della impunità o che non aveva nulla da temere a esser rintracciato…

      Non voleva tirare ancora conclusioni; cercava di riunire tutti gli elementi di fatto, così come gli si presentavano.

      Avrebbe poi ragionato e dedotto. Egli sempre procedeva soprattutto per intuizione, guidato da un senso nascosto e sconosciuto, che gli faceva dar peso e valore a fatti minimi, a indizi microscopici, mentre poi lo induceva a non tener conto di quanto ad altri sarebbe apparso evidente e urlante. Egli non credeva all’evidenza degli indizi, più di quel che credesse alla certezza delle prove. Nessuna prova era certa e tutte lo erano. Nessun delinquente firma il suo delitto. Il caso lo firma per lui.

      Guardò attorno al cadavere, per terra. Il pavimento era polveroso. Ma dalla porta, che si apriva nella stanzuccia di destra sul cortile, al corpo disteso, la polvere era scomparsa per tutta una larga striscia, come se il cadavere fosse stato trascinato in terra. Perché proprio lì dentro?

      C’era connessione tra la «persona» del defunto e il luogo nel quale il suo cadavere giaceva?

      Il commissario andò lentamente nella stanza di destra e si avvicinò alla porta nera, che dava sul cortile. I battenti apparivano chiusi, ma egli vide facilmente che il vecchio catenaccio traballante era tirato. La porta non era che accostata.

      Trasse a sé il battente e uscì nel cortiletto. Un antro umido, con la latrina in un angolo; di fronte una vasca per lavare. In fondo un vano coperto, in cui si apriva una scala.

      A sinistra dopo la latrina, il passaggio che dava nell’androne e di lì si usciva poi sulla strada, passando davanti alla portineria.

      Una vecchia casa popolare. Un alveare di povera gente. La miseria cimiciosa, che sa di umidore malsano o di polvere arsigna, a seconda delle stagioni. De Vincenzi si avvicinò alla portineria. «Il portone a che ora si chiude?». Gli risposero due voci affrettate, ansiose, una roca, l’altra sottile e acuta. «Chi è?».

      Il