ebbe un gesto.
La voce di De Vincenzi si fece soave, piena di commossa profondità.
«Mi perdoni!… Lei poco fa… al signor Questore, che le parlava per telefono, ha affermato di aver sentito rientrare suo marito questa notte…».
«Ho mentito».
«Sì… Ma perché lo ha fatto?».
«Mio marito da un po’ di tempo aveva preso l’abitudine di tornare a casa molto tardi… alle quattro, alle cinque del mattino… qualche notte non rientrava affatto… Naturalmente, io non potevo dir questo a chi mi interrogava al telefono e chiedeva di voler parlare con lui personalmente. Ho preferito mentire».
«Dunque, lei, quando il signor Questore le ha telefonato, sapeva già che il senatore era fuori di casa?».
«Sì. Ma non volevo dirlo».
De Vincenzi chinò il capo. Fino a quel punto, tutto era semplice. Quella donna era troppo fiera, per confessare se non proprio quando vi fosse stata spinta dall’ineluttabile, che suo marito la tradiva, che aveva un’amante. Ignorando il dramma, si era trincerata dietro la menzogna.
«Può dirmi dove suo marito passava le notti, quando era assente?».
«Non lo so!».
Il corpo le si era eretto, con una mossa di fierezza.
«Mi perdoni…» insisté De Vincenzi.
«Non mi sono mai curata di saperlo. Mio marito era libero di far quel che voleva…».
«Neppure un sospetto?».
«No».
Rispondeva subito, in fretta, con voce vibrante. «Pensi che suo marito è stato ucciso e che, forse, se noi sapessimo dove si trovava la notte scorsa, il compito per rintracciare l’assassino ci sarebbe assai più facile…».
«Lo credo. Ma la verità è che ignoro tutto di mio marito».
Fece una pausa.
«Da molto tempo, vivevamo come due buoni compagni… Egli non mi diceva nulla della sua vita… Le assicuro che, per quanto grande sia il mio dolore, io non posso aiutare in alcun modo la giustizia degli uomini. E quella di Dio non ha bisogno d’essere illuminata».
Si alzò. Fece qualche passo verso la porta e si fermò.
«Dove… dove si trova il… cadavere?».
Il Questore rispose: «Sarà trasportato tra poco al Monumentale. È necessario. La legge lo vuole… ma se crede che domani lo faccia portare qui… per far partire il funerale dalla casa che fu sua…».
«No! Grazie».
La voce le si raddolcì, gli occhi le si empirono di lacrime.
«Grazie!» ripeté, con accento di riconoscenza. «Non importa, però! Oramai!».
E uscì in fretta, singhiozzando.
R
Capitolo quinto
Patt…
«Cominciamo ad avanzare!».
«Lo crede proprio?».
De Vincenzi trovava il mistero sempre più fitto. Sentiva di camminare sopra un terreno friabile; un passo falso e c’era da rotolare sino al fondo. Non un punto di sostegno, ancora. Nessuna pista chiara e netta. E, per di più, a mano a mano che avanzava, le piste s’infittivano. Troppe per essere il principio.
Il Questore si guardava attorno. Erano rimasti soli nel salotto. Nessuno più si occupava di loro.
«Che conta di fare, adesso?».
De Vincenzi sussultò.
«Desidererei rimanere ancora qui…».
«E poco fa, quando è uscito?…».
«Sì. La cameriera stava origliando. Mi ero accorto che c’era qualcuno dietro la porta. Per questo ho alzato la voce… perché chi ascoltava sentisse. E quella ragazza, quando ha conosciuto l’assassinio, è svenuta».
«Strano!…».
«Piuttosto…».
«Che ne pensa?».
«Ancora nulla, naturalmente».
«È una bella ragazza…».
«Sono tutte belle qui dentro…».
Il Questore fece un gesto.
«La lascio solo. Gliel’ho detto: ha carta bianca. E m’informi, man mano che progredisce».
Uscì in anticamera, seguito dal commissario. Non c’era nessuno. Tutto l’appartamento sembrava disabitato. Il Questore si mise il cappello e si diresse all’uscio. Quando fu sulla soglia, fece un gesto di saluto e scomparve, richiudendo adagio la porta.
De Vincenzi andò diritto nella stanza delle consultazioni. Si trovò in un ambiente chiaro, luminoso. Il gabinetto del professore si componeva di due camere comunicanti. Lui era entrato in quella delle visite e delle operazioni. Un armadio laccato di bianco, coi vetri opachi. Un tavolo di marmo contro il muro e un altro più vasto in mezzo alla camera. Davanti alla finestra un lettuccio di ferro, disarticolato, da potersi sollevare in ogni senso. Sopra quel letto e sopra il tavolo di marmo due grandi riflettori e un groviglio di fili elettrici, di lampade, di bracci d’acciaio. Una poltrona. Un grande lavabo.
Il commissario si guardava attorno. Sul tavolo contro il muro, si allineavano una quantità di ferri chirurgici. Si ricordò di quelli che aveva lasciati sulla sua scrivania, in Questura, col camice bianco… Anche qui un camice bianco pendeva da un attaccapanni, accanto alla porta, di fianco a un leggero mantello femminile e a un cappellino nero.
«Desidera parlare con me?».
L’infermiera si teneva ritta sulla soglia della seconda stanza e certo lo osservava da qualche minuto.
«Non ne manca nessuno?» e De Vincenzi indicò i ferri allineati sul marmo.
La giovane avanzò in fretta.
«Che vuol dire?».
«Il professore aveva altri ferri chirurgici, oltre questi?».
L’infermiera non comprendeva. Guardò i ferri.
«Oltre questi? Certamente. Ce ne sono lì, dentro l’armadio. Ci sono le buste che il professore portava con sé, quando si recava dagli ammalati. Neppure io stessa potrei dirle se ne manca qualcuno».
«Lei a che ora vide il professore per l’ultima volta?».
L’esitazione fu breve.
«Alle 17, quando uscì dall’ospedale, venne qui. Si trattenne in questa stanza. Consultò l’agenda degli appuntamenti. Scambiò qualche parola con l’assistente. Poi mi disse che non voleva più ricevere nessuno, per quel giorno. Gli feci osservare che c’erano ancora due ammalati nel salotto… Mi rispose che era stanco, che in ospedale aveva fatto un’operazione assai faticosa e incaricò il dottor Verga di visitarli lui. Poi mi lasciò libera di andarmene…».
«E lei andò via?».
«Naturalmente. Era difficile non ubbidirgli. E poi… anch’io ero stanca…».
«Da allora non lo ha veduto più?».
«Da quel momento dovevo non vederlo più…».
«Come si chiama lei, signorina?».
«Patience Drury… Ma nessuno mi chiama Patience e tutti Patt».
«Anche il professore?».
«Oh!» la ragazza alzò le spalle. «Lui mi chiamava signorina».
«È