incalzò l’altro.
«Sta’ attento!» gridò in inglese miss Drury. «Il professore è morto!».
«Grazie, miss» disse subito De Vincenzi parlando inglese anche lui. «Ma poiché io capisco la sua lingua, possiamo parlar tutti italiano, non le sembra?».
L’americana si irrigidì.
«Che cosa crede d’aver scoperto, col suo inglese? Edoardo ignora che il senatore è stato assassinato!».
«Assassinato!» esclamò il giovane e la sua voce, più che di orrore, vibrò di paura. Aveva gli occhi sbarrati e le labbra gli tremavano. «Assassinato! È vero? Dove? Quando?».
«Questa notte. E in quanto al luogo…».
De Vincenzi fece una pausa, poi arrischiò un altro colpo: «Forse, lei può supporlo…».
«Io? Che dice?».
«A che ora ha lasciato il professore, ieri sera?».
«Sono uscito di qui alle sette».
«E miss Patt?».
«Poco prima…».
La risposta era stata data di scatto e l’infermiera trasalì. Fece un gesto.
«Assai prima… Lui non ricorda…».
De Vincenzi sentiva di guadagnar terreno. La giovane aveva mentito, dicendo d’essere uscita dall’ambulatorio alle cinque.
Il medico guardava la ragazza con stupore, mentre lei lo fissava intensamente.
«Ma sì, Edoardo. Tu confondi con ieri l’altro… poiché io, infatti, esco tutte le sere alle sette… Ieri è stato un caso… Il professore era stanco e…».
«Lo so» interruppe il commissario. «Me lo ha già detto!».
E tornò a rivolgersi all’uomo.
«Dunque, lei è uscito alle sette e miss Drury era uscita poco prima… E il senatore?».
«Rimase qui».
«E a che ora lei lo ha incontrato di nuovo, ieri sera?».
«Ma non l’ho più riveduto, le ho detto…».
«Già… Ne è proprio sicuro?».
«Che cosa vuole insinuare?».
«Per ora, nulla. Vedremo in appresso… E, uscito di qui, lei dove è andato?».
«A casa mia, in via Leopardi».
«Via Leopardi è vicina a via Boccaccio…».
«Infatti…».
«Bene. E poi?».
«E poi… nulla. Sono rimasto in casa».
«Questo è tutto?».
«Ma sì…».
«E proprio sicuro di ricordar bene?».
L’altro tacque, crollando le spalle. Cercava di riacquistare un po’ della sua sicurezza di poco prima, ma non ci riusciva.
Seguì un lungo silenzio.
Patt tamburellava con le dita sul marmo del tavolo operatorio. Il dottore spiava i movimenti del commissario, che si guardava attorno con interesse.
«Quando tornò dall’ospedale, ieri nel pomeriggio, il senatore aveva con sé la sua busta dei ferri?».
Fu l’infermiera a rispondere: «Naturalmente». «E dove la posò?».
«Non potrei dirlo con precisione… L’avrà messa su quel tavolo… Il professore dopo ogni operazione apriva la borsa… ne estraeva i ferri e li poneva su quel vassoio di ebanite, perché io li disinfettassi, facendoli bollire… Ma ieri non mi sembra che lo abbia fatto. Certo, io non li ho disinfettati».
«Ed era solito portar con sé anche un camice?».
«Quando si recava al domicilio di un ammalato per un’operazione…».
«E ieri?».
«Non so».
De Vincenzi andò nella prima stanza lasciando i due giovani soli. Era un salotto. Un divano, qualche poltrona, una scrivania dinanzi alla finestra. Si guardò attorno e tornò indietro. Il dottore si scostò rapidamente dalla ragazza alla quale stava parlando con concitazione, a bassa voce. Il commissario fece mostra di non essersene accorto. Traversò il gabinetto, aprì la porta di comunicazione con l’appartamento.
Si volse di colpo.
«Dottor Verga, la prego, alle quindici, favorisca trovarsi nel mio ufficio a San Fedele».
Il giovane s’inchinò.
«E anche lei, miss Drury…».
L’americana sorrise.
De Vincenzi entrò nell’anticamera e richiuse la porta dietro di sé.
L’anticamera era sempre vuota. Egli vi si trovava da qualche minuto e stava ricapitolando nel proprio cervello i punti principali del colloquio avuto, quando trillò il campanello della porta. Nessuno veniva ad aprire. Il campanello trillò di nuovo.
Finalmente, comparve Norina. Era pallidissima, ma sembrava aver vinto la debolezza di poco prima. Die de un’occhiata piena di spavento al commissario e si diresse alla porta.
«Buon giorno, figliuola. Il senatore è già in ambulatorio?».
La voce era sonora, calda, musicale. La voce di un uomo sano, gioviale. La cameriera si ritrasse e tentò parlare, ma dalla bocca non le uscì alcun suono.
«Ebbene? Che cos’hai? Si direbbe che non mi riconosci…».
Il visitatore avanzò. Doveva avere una quarantina d’anni o poco più. Era piuttosto basso, ma ben proporzionato e quasi elegante. Si tolse il cappello e lo gettò sulla cassapanca. Si muoveva con scioltezza,, come uomo pratico della casa e che sa di trovarvi buona accoglienza in ogni momento. Cominciò a sfilarsi i guanti.
«Vallo ad avvertire… Due sole parole e scappo… Non mi tolgo neppure il soprabito… Con la grippe e il morbillo che infieriscono, non ho davvero molto tempo.»..».
S’interruppe. Aveva veduto De Vincenzi e lo fissò.
De Vincenzi fece qualche passo verso di lui.
«Commissario De Vincenzi…».
Il visitatore lo guardava, evidentemente sorpreso. Non capiva.
«Ma?…».
Diede un’occhiata interrogativa alla cameriera, che, sempre più pallida, non riusciva a pronunciar parola.
Tese macchinalmente la mano e si presentò.
«Dottor Alberto Marini… Ma che c’è di nuovo? È accaduta qualche disgrazia?…».
«Peggio. Lei è amico di famiglia?».
«Altro che amico! Ugo… il senatore Magni, voglio dire, e io siamo stati compagni di studi… Ma è accaduto qualcosa a Ugo?…».
«Purtroppo!».
L’altro tacque, aspettando.
«Questa notte, il senatore Magni è stato ucciso!».
«No!… È mostruoso! Ucciso? Ha detto proprio ucciso?».
«Sì».
«E la signora?».
«La signora… sta bene. Sì, insomma, sta come si può stare dopo un simile colpo. Ma io la lascio…».
Guardò la cameriera. Fece un movimento, come se volesse parlare. Poi cambiò idea e si diresse alla porta.
«Aspetti,