Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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è entrato qui? Non l’ho fatto chiamare!».

      «Sono entrato, senza aspettare che lei mi chiamasse! I suoi non sono metodi da gentiluomo!».

      «Può darsi. Ma io faccio il commissario di Pubblica Sicurezza in questo momento. E le domando: che cosa ha fatto lei, dottor Verga, dalle undici di ieri sera a questa mattina?».

      «Sono andato a letto».

      «Lo vedremo! A che ora è rincasato?».

      «Alle undici e mezzo… a mezzanotte… il tempo di arrivare a casa mia…».

      «Badi! Lei mi ha detto di abitare in via Leopardi. Da via Boccaccio a via Leopardi ci sono due minuti di strada, a dir molto!».

      «Ho fatto un giro per il Parco… Ero ancora agitato e volevo calmarmi».

      «È sicuro di essere stato al Parco?».

      «Certo!».

      «E di essere tornato a casa a mezzanotte?». «Certo!».

      «Con chi vive a casa sua?».

      «Sono a subaffitto in una specie di pensione. La mia famiglia si trova molto lontana da Milano». «C’è una padrona di casa?». «Naturalmente. E anche suo marito».

      «Lo so!» lanciò De Vincenzi con forza e corse alla porta.

      «Fammi venire quell’uomo che Paoli ha condotto» disse a Sani e tornò subito verso i due.

      Il giovane s’era fatto mortalmente pallido. Patt gli si teneva vicina e gli stringeva il braccio. Fissava De Vincenzi senza più baldanza, ma con intensità. L’attesa fu breve.

      Sani introdusse il padrone di casa del dottor Verga. Era un pezzo d’omaccione con un petto grande come un armadio e una testa rotonda sulle spalle quadre. E con quel fisico da lottatore, aveva un volto paffuto e infantile, con un nasino troppo piccolo e una boccuccia da giovane educanda.

      Guardò De Vincenzi, poi vide Verga e lo salutò con un sorriso di cordiale amabilità. «Lei è il padrone di casa del dottor Verga?».

      «Sì».

      «Da quanto tempo ha per inquilino il dottore?».

      «Esattamente sei mesi».

      «È solito rincasar tardi alla notte?».

      «Come tutti i giovanotti. Qualche volta non rincasa neppure. È la sua età e in casa mia non può condurre donne, perché mia moglie non lo vuole».

      L’uomo parlava con una vocetta sottile, che non sembrava la sua.

      «E ieri notte?».

      «Come?».

      «Dico: ieri notte a che ora è tornato a casa?».

      «Ma non è tornato affatto, ieri notte! Credevo che lui glielo avesse detto. Maria… mia moglie… ha trovato il suo letto intatto, stamane…».

      Il giovane taceva. Non aveva fatto neppure un gesto. Gli occhi di Patt mandavano lampi di terrore.

      Pesò un silenzio.

      «Sta bene. È tutto. Può andare».

      L’uomo capì che le sue parole avevano prodotto qualcosa di grave e si guardò attorno, stupito.

      «Ma non dovevo dirlo?» chiese, rivolto al dottore. Edoardo, nonostante tutto, sorrise a quella ingenuità.

      «Se ne vada!» ripeté il commissario.

      L’uomo uscì, sempre più meravigliato.

      De Vincenzi andò a sedere al suo tavolo.

      La pausa di silenzio che fece fu lunga.

      Un primo punto era acquisito.

      Doveva valersi subito del vantaggio e spingere l’interrogatorio a fondo? Certamente, ogni altro avrebbe fatto così. Ma lui voleva prima aver qualche più sicuro elemento di giudizio. Non riusciva a convincersi che quel giovanotto avesse assassinato.

      Alzò gli occhi e guardò i due. Tacevano, stretti una all’altro. Allora, di colpo, il commissario tagliò l’aria con una mano.

      «Null’altro neanche da loro, per ora! Vadano pure. Questa sera alle ventidue, li attendo qui».

      Edoardo sussultò. Credette che gli tendesse un tranello. Fece per parlare. Poi scosse la testa e alzò le spalle.

      «Vieni» disse a Patt e i due uscirono.

      Sani si affacciò alla porta.

      «Vuoi che li faccia seguire?» chiese in fretta a voce bassa.

      «Naturalmente» rispose De Vincenzi. «Mettici Cruni e un altro. Cruni s’incarichi dell’uomo». E aggiunse con una certa preoccupazione: «Non lo perda di vista un solo momento!». Poi tornò lentamente verso il tavolo. Era pensieroso.

      R

      «La Zaffetta» — Venetia 1531

      Rimase a lungo nella stanza, con la porta chiusa. Sani lo sentiva andare e venire, come faceva sempre quando doveva risolvere qualche problema assillante. Il moto gli facilitava l’opera del cervello. A un tratto squillò il telefono. La voce di De Vincenzi disse: «Pronto» e poi un lungo silenzio. Evidentemente, ascoltava. La voce proferì: «Sta bene! Vengo» e seguì lo scatto del telefono che si richiudeva.

      Poco dopo, la porta si aprì e il commissario apparve col soprabito in dosso e il cappello in testa.

      «Se mi cercano, tornerò fra un’ora».

      «Vuoi che venga con te?».

      «Non importa».

      E uscì nel cortile.

      Camminava con le mani in tasca e il cappello sugli occhi. Un collega lo salutò, ma lui non lo vide.

      Ci mancava quest’altra, adesso! Sì, tutto sarebbe stato chiaro, così; ma lui sentiva che così non era. Quella donna doveva essere isterica e il fatto che fosse fuggita dalla casa del senatore non dimostrava nulla. E poi, perché fuggita? Se n’era andata, semplicemente. Nulla di strano che fosse stata davvero l’amante del senatore… L’amante? Il capriccio di un’ora! Era bella, non aveva nulla d’una cameriera. Lui aveva dovuto prenderla, se pure lo aveva fatto, perché non era uomo da perdere una occasione, e lei invece aveva creduto chissà che.

      Seppe che lo avevano ucciso ed era svenuta. Poi quella casa le sarà sembrata insopportabile. Forse, lo amava davvero, lei. Ed era scomparsa. Nulla di più semplice.

      Quando fu dietro al Duomo, attese il tranvai. Rimase in piedi sulla piattaforma della seconda vettura. Per ora, lui non ci vedeva chiaro. Chiunque altro, al suo posto, avrebbe arrestato il dottor Verga, avrebbe rimesso la pratica al giudice istruttore e non si sarebbe neppur sognato di pensarci più. Ma lui viveva troppo intensamente le sue inchieste per poter agire a quel modo. Voleva trovare la verità, lui: attraverso i vari personaggi di ogni dramma. Faceva un lavoro esclusivamente psicologico. Era convinto che ognuno agisse soltanto come era capace di agire. Gli indizi materiali non gli servivano che come punti di riferimento.

      Quando si trovò nell’atrio della casa di Magni, cercò di ritrovare la sua lucidezza e di sgombrare il cervello da ogni prevenzione.

      Suonò e venne ad aprirgli un giovanotto in uniforme verde bottiglia, da autista.

      «Annunciatemi alla signora. Sono il commissario De Vincenzi».

      L’uomo si trasse da parte e De Vincenzi si trovò di nuovo in quell’anticamera severa, che la porta dell’ambulatorio chirurgico illuminava illogicamente di luce chiara.

      «L’infermiera è di là?».

      L’autista guardò la porta.

      «Non