mentre autore ne fu Lorenzo Veniero, nobile veneziano, che la pubblicò per vendicarsi di una cortigiana veneziana chiamata Angela, che si nasconde sotto il nome di «Zaffetta» e cioè, in veneto, figlia di sbirro. Il volume, a grossi caratteri romani, non porta né indicazione, né date. Contiene un sonetto del Ventero allo Aretino. Consta di 114 ottave. Si vendeva 48 fr. nel 1805.
Il commissario alzò gli occhi verso l’impiegato della libreria.
«Strano!… Quanto può valere?». «Qualche centinaio di lire… Ci si regola a seconda dei clienti… È un’opera erotica…». «Pornografica?».
«Secondo l’intenzione di chi legge». «E l’hanno rubata!».
«C’erano volumi più rari e più costosi in quello scaffale!…».
«Ci capisce qualcosa, lei?».
Pietrosanto per quanto si fosse rimesso dallo spavento del mattino, non ci capiva nulla, naturalmente.
De Vincenzi si mise la scheda in tasca ed entrò nel corridoio.
Stette in quelle tre camere una mezz’ora e, quando uscì, aveva l’aria soddisfatta.
«Il suo padrone, torna mai in negozio di sera o di notte?» chiese a Pietrosanto.
Quello spalancò gli occhi glauchi.
«Il signor Chirico? Ma no davvero, che io sappia…».
«E la portinaia, può aver dato la chiave a un estraneo?».
«Non avrebbe dovuto, naturalmente!».
«Già, non avrebbe dovuto; ma può averlo fatto…».
«Ha trovato qualcosa?».
De Vincenzi non rispose e uscì, dicendo: «Tornerò».
Appena nel suo ufficio, chiamò Sani. Gli diede la fotografia e le generalità della cameriera.
«Falla ricercare dovunque. Avverti i commissariati e le stazioni. E poi va’ all’ufficio antropometrico e vedi se c’è qualcosa di costui». Sani guardò la fotografia.
«Ha l’aria di un invertito o di uno sfruttatore di donne, questo giovanotto…». «È quel che penso anch’io». Sani uscì.
De Vincenzi si mise a riflettere. Lentamente estrasse dal taschino del panciotto una piccola pallottola di piombo. Era soltanto un poco deformata. La guardò e la pose accanto ai ferri chirurgici.
Poi disse al telefono che gli trovassero al Monumentale o alla Guardia Medica di via Agnello o a casa sua il dottor Sigismondi. Poco dopo il telefono squillava. «E lei, dottore?».
«Ma sì, sono io» rispose la voce del dottore dall’altro capo del filo. «Perché mi ha chiamato? Sarei venuto tra un’ora a portarle il rapporto». «Ha fatto l’autopsia?». «Sì».
«Trovato il proiettile?».
«Sì. Uno solo, mentre le ferite sono due. Calibro 25. Un’automatica molto piccola, la più piccola forse che esista. Un gingillo da borsetta di signora…».
De Vincenzi sorrise.
«Non è stata una donna, dottore!».
«Io non lo so».
«E neppur io…».
«Allora verrò tra poco».
«Come vuole. Se non mi trovasse, lasci il rapporto».
«Sì… Ah! Ascolti. Un particolare. Nelle viscere abbiamo trovato alcool in abbondanza. E sono convinto, che se non fosse stato colpito dai proiettili alla testa, avremmo potuto riscontrare l’iperemia delle meningi».
«Il che vuol dire?».
«Che il senatore aveva bevuto molti liquori prima che lo uccidessero».
«Ah!… Bravo dottore!».
Riappese il cornetto. Nulla di strano che avesse bevuto. Dalle venti, quando aveva lasciato il Sempioncino, alle due di notte circa, ora in cui presumibilmente lo avevano colpito, in qualche luogo doveva esser pur stato e nulla di strano che fosse un caffè…
Premette il campanello. Al piantone ordinò di chiamargli il brigadiere Padovani.
Accorse un giovanottino elegante, che sembrava un maestro di ballo o un «ballerino» da tabarin, più che un poliziotto.
«Brigadiere, deve chiedere al suo commissario di lasciarla libero questa notte. Ho bisogno di lei».
Il giovanottino si gonfiò di soddisfazione.
«Ai suoi ordini, cavaliere. Questa notte sarei stato di riposo e la cosa è facile».
«Ebbene, vada da Bertolò, il fotografo sul corso Vittorio Emanuele, e si faccia consegnare una fotografia del senatore Magni… Ne avrà certamente qualcuna pronta, perché anche i giornali gliel’avranno chiesta… Con quella fotografia, giri tutti i locali, caffè, birrerie, ristoranti, che rimangono aperti dopo la una e s’informi se la notte scorsa il senatore è stato in uno di essi e a che ora e con chi era, dato che non fosse solo…».
«Ho capito, cavaliere. Lasci fare a me…». E il brigadiere uscì, con la vita lievemente ondeggiante, stretta nella giacca attillata.
De Vincenzi sorrise. Per una notte almeno, le infelici girovaghe notturne sarebbero state tranquille! Sani rientrava.
«Ho dato gli ordini per la ragazza. In quanto al fratello ho trovato la pratica».
E gliela porse assieme alla fotografia. Era voluminosa. Il commissario diede un’occhiata alla cartella riassuntiva. «Furto; furto; possesso abusivo d’armi; oltraggio e violenza agli agenti; altra condanna per oltraggio; furto; sfruttamento di donne; contravvenzione al monito; violenza carnale; spendita di monete false; inosservanza alla vigilanza speciale. Inviato a Ustica, ni Domicilio Coatto, ne esce il 5 marzo 1917, perché la sua domanda di redimersi, combattendo per la patria viene accolta. Dal 1918 al 1924, due condanne per sfruttamento di donne». «Un bel tomo, eh?» commentò Sani. «Non c’è male» rispose De Vincenzi. «Fallo fermare, se lo trovi. Incaricatene tu stesso».
«Questa notte, uscirò col pattuglione. Vuoi che faccia la “retata”?».
«Sì. Ti farò dar l’ordine dal Questore…».
«Io farei una perquisizione anche nel casamento di via Corridoni. Lo conosco e ci troveremmo tutti buoni clienti di San Vittore».
«No. Lì dentro no. Non voglio che si spaventino. Ho bisogno di farli parlare».
De Vincenzi si alzò e sospirò: «Adesso, vado su dal Questore…».
Mentre faceva lentamente le scale per salire al primo piano, pensava che tutto quanto aveva fatto e osservato da quando l’inchiesta s’era iniziata non lo aveva avvicinato di un centimetro all’assassino del senatore Magni…
A meno che… A meno che non dovesse tutta la sua riconoscenza all’ottimo Gualtiero Gerolamo Pietrosanto, il quale aveva saputo accorgersi subito della scomparsa di un volume erotico, pubblicato a Venezia nel 1531, e rubato dalla libreria di via Corridoni nella notte dal 20 al 21 marzo 1926…
E quella mattina il sole, entrando in Ariete, aveva segnato il principio della primavera!
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Capitolo undicesimo
La Darsena di Porta Ticinese
Alle 10 di sera sul vasto piazzale di Porta Ticinese, la Darsena quadrata ha un lividore metallico. L’acqua ristagna immobile e dietro le griglie delle paratie la melma si addensa e affiora.
Nel suo ufficio, De Vincenzi aveva guardato l’orologio e aveva rimesso il volume, che stava leggendo, dentro il cassetto. Tra poco sarebbero venuti.
La stanza squallida era