Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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accennò un sogghigno.

      «Ieri notte?».

      «Sì. Cerca di ricordarti».

      «A casa… a letto… come sempre… Io dormo a tutte le ore!…».

      Sembrava ci si divertisse.

      «I testimoni ce li hai?».

      «È venuta la visita alle dieci… mi hanno trovato. Le posso far vedere la firma sul libretto. Lo chieda al pattuglione».

      «E dopo le dieci?».

      «Mi sono voltato dall’altra parte e ho russato…».

      «Dormi solo?».

      «È per saper questo che mi fa tante domande?».

      «Lo faccio per te. Non vedi che cerco di aiutarti?».

      L’altro alzò le spalle.

      «Ieri notte ero solo!».

      «Male! Proprio ieri notte hanno ammazzato il senatore Magni…». «Ah!…».

      Era sorpreso, più che colpito. «Guarda!… Gliel’hanno fatta! E chi è stato?».

      «Tu!».

      «Sciocchezze! Non mi ci prende! Non ho mai sparato io, né fatto occhielli nella pelle di nessuno. Ladro quanto vuole! Ma i trent’anni non li becco! Cerchi meglio, commissario! Questa qui non attacca!».

      «Lo vedremo! E stamattina che hai fatto?».

      «Vuole l’alibi? Per tutto il giorno di oggi ce l’ho. Lo domandi al commendatore… Sono stato con lui tutto il giorno per affari…».

      «E questo tuo commendatore, chi è?».

      «Via della Madonnina 13… Ci vada… È il Restelli di Fiori Chiari… Fa il mercante, lui…».

      «Ah!» fece il commissario, che conosceva il ricettatore. «La testimonianza non è delle migliori!…».

      «Lo so! Anche perché lui avrà paura di dire che mi ha tenuto nella sua bottega ad aiutarlo… Ma è la verità…».

      «E hai veduto tua sorella, oggi?».

      «No. Ma ho saputo che è stata a cercarmi a casa. Io non c’ero».

      «Ci avrai i testimoni, almeno di questo, eh?».

      «E come!… Il portinaio di casa fa l’informatore… Lo conoscete bene!».

      «A che ora è venuta!».

      «Saranno state le sei, credo…».

      De Vincenzi fece una pausa.

      Il giovanotto si asciugava l’acqua sul corpo, fregandosi con la camicia. Tutta quella storia non sembrava interessarlo. Ogni tanto guardava il commissario di sottecchi e sogghignava.

      «Adesso, starà tranquilla Norina, se quello è morto!».

      «Eh?!» fece quasi di scatto De Vincenzi, perché quella frase era stata detta con tale accento da non lasciar dubbi: lui credeva sinceramente che sua sorella fosse ancora viva.

      «Ho detto che adesso finirà di pensare al senatore, mia sorella! Lui s’era divertito con lei e Norina c’era cascata. È una sentimentale, povera stupida!».

      «Non è più sentimentale» articolò De Vincenzi lentamente.

      L’uomo alzò la testa, sorpreso soprattutto dal tono di quelle parole.

      «Perché?».

      «Perché hanno ammazzato anche lei!».

      «No!… Per la…».

      E bestemmiò con ferocia.

      S’era alzato, stringeva i pugni.

      «È vero? È proprio vero quel che dice? Perché se lo fa, per tentare di prendermi in trappola… non so neppur io con che sugo, del resto!… Ma, se mente, è una porcheria!».

      «Non mento. Qualcuno ha strangolato tua sorella questa notte e poi l’ha gettata nella Darsena di Porta Ticinese!…».

      L’uomo si fece livido. Tutte le corde del collo gli si gonfiarono. Ansava. Sembrava che volesse lanciarsi contro il commissario. C’era in lui l’impeto di una collera furibonda. Gli occhi torbidi vedevano rosso.

      «Se mi dice chi l’ha ammazzata…» urlò; ma improvvisamente, di colpo, sembrò afflosciarsi… Fu come se, per la prima volta in vita sua, fosso stato invaso da una grande commozione spasimosa. Gli occhi gli si empirono di lacrime. Una specie di rotto singhiozzo gli uscì dalla gola. Ricadde a sedere e si prese la faccia tra le mani. Piangeva. Mormorò: «Povera creatura! Povera figliaccia di mamma sua…».

      De Vincenzi dovette voltar la testa da un’altra parte e poi allontanarsi verso il fondo della camera. Quel dolore buono, sano, in quell’anima depravata, era profondamente patetico.

      Poteva fingere? Soltanto la lunga dimestichezza, che De Vincenzi aveva coi delinquenti gli

      suggeriva che sì, che poteva anche fingere, che anzi avrebbe proprio finto in quell’unico modo, se lo avesse fatto. Ma non fingeva. Non fingeva, per l’unica ragione che non era stato lui a ucciderla e che non sapeva neppure che l’avessero uccisa.

      Un’altra pista da scartare. Un’altra figura, che entrava e che usciva dal dramma. Si sentiva lontano dalla verità, più lontano che mai! Se soltanto avesse interrogato la ragazza, quando era viva!

      Andò nella camera di Sani, lasciando solo quel disperato, per non sentirlo più piangere. Gli faceva male.

      Pensava al cadavere della donna, bianco, sporco di melma, con quei suoi capelli biondi molli, opulenti…

      Rivide un’altra figura femminile. La donna obesa e un poco inflaccidita, che prediceva la morte a distanza. Se davvero attorno a noi esistesse un altro mondo, che non conosciamo? I morti tornano? Parlano? Allora, Norina avrebbe potuto parlare… Lei amava il senatore, lei pure! Povera creatura! Povera figliaccia di mamma sua!

      Uscì sotto il portico e chiamò l’agente che passeggiava, fumando.

      «Vieni qui!».

      «Ai comandi» e quello spense il sigaro, fregandolo contro il muro.

      De Vincenzi rientrò seguito da lui.

      Gl’indicò il giovanotto, che stava sempre curvo sulla seggiola, con la testa fra le mani.

      «Portalo via. Chiudilo in guardina. È inutile che torni a casa stanotte. Mettilo solo. E… trattalo bene! Non ha fatto niente…».

      L’agente si avvicinò all’uomo e gli batté sulla spalla: «Andiamo, su!… Vieni con me!…».

      Quello si alzò. Teneva sempre le mani sulle guance. Sembrava un automa.

      Quando fu in piedi, si prese un dito fra i denti e lo morse rabbiosamente. «Maledetta la vita!…».

      Poi seguì l’agente, senza più guardare nessuno. De Vincenzi sentì il loro passo che si allontanava, risuonando sotto il porticato. La pendola in camera di Sani batté le due. Adesso, il commissario s’era seduto. Si sentiva invadere da una grande stanchezza. Aveva sonno. Che poteva fare ancora per quella notte? Non metteva più insieme due idee. Quella era l’inchiesta degli innocenti. Persino i gaglioffi diventavano mondi! Eppure c’erano due cadaveri. Uno per notte. Tutti e due sul marmo dell’ospedale! Si alzò di scatto.

      Se ne sarebbe andato a dormire. Aveva bisogno di riposo. Pensò con un senso d’infinita voluttà al refrigerio delle lenzuola.

      Spense la lampada sul tavolo, senza pensare che quella del soffitto era spenta. Si trovò al buio. Vide il quadrato della porta illuminato e la camera del vicecommissario.

      Vi si diresse quasi di corsa, perché quel buio era pieno d’ombre, materiali,