Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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prevedevo» aveva risposto De Vincenzi al medico, che glielo comunicava. «E iperemia alle meningi, vero?».

      «Vedo che è ferrato in medicina!» esclamò l’altro.

      «Non credo…» s’era schermito il commissario. «Ma che quella figliola avesse bevuto liquori prima di venire uccisa lo immaginavo, per la semplice ragione che il suo assassino è il medesimo del professore».

      «Ma lei sa chi sia l’assassino?».

      «Io? Non ne ho la più pallida idea».

      Mentiva. Un sospetto l’aveva. Ma era uno di quei sospetti, che fanno sorridere, quando vengono manifestati, se non fanno addirittura sobbalzare d’incredulità. E lui si guardava bene dal manifestarlo ad alcuno. Lo covava in silenzio, chiuso nel suo ufficio di San Fedele.

      Non era tornato in via Corridoni e neppure in viale Bianca Maria. Nessuno lo aveva più veduto, né lui aveva fatto chiamare nessuno. Né il piccolo signor Chirico, che viveva quei giorni con l’ansia di veder comparire in negozio o a casa sua una o addirittura un paio di guardie. Non miss Drury col suo fidanzato. Non la pallida vedova del senatore. E neppure la medium, che certo si sarebbe presentata, facendosi accompagnare dalla figlia.

      Pietrosanto, nel negozio, lo aspettava. Il mite compilatore del catalogo interminabile avrebbe volentieri conversato con quel commissario così gentile e intuitivo.

      «Vedrà che scoprirà l’assassino!» aveva detto al padrone, ma quello, grattatosi la testa, l’aveva poi scossa energicamente.

      Gualmo nondimeno lo aveva ripetuto e lo ripeteva a tutti i clienti del negozio, che s’eran fatti più fitti e così assidui, da tornare a cercar libri fino a tre volte al giorno. Erano attratti lì dentro dalla curiosità morbosa per quel delitto così strano e oscuro. E trovavano mille pretesti, per andar nel retrobottega a guardare il posto dove c’era stato il cadavere.

      I giornali portavano colonne e colonne. Ancora, però, la morte della ragazza era quella che accendeva maggiormente la fantasia. Un delitto atroce di brutalità. Le mani contratte dell’assassino attorno al collo esile e bianco. E la donna era bella! Se fosse stata brutta, la sua morte non avrebbe fatta tanta impressione.

      De Vincenzi non cercava, non indagava, non si muoveva neppure. Col giudice istruttore aveva avuto un lungo colloquio, dopo il quale quello se ne era andato, scuotendo la testa e dicendo: «Le concedo gli otto giorni che vuole. Ma se in capo a essi non mi porterà il reo, farò io e le assicuro che farò presto!».

      «Naturalmente» aveva pensato il commissario. «Lui farà prestissimo, anzi. Due mandati di cattura e tutto a posto! Povera Patti Povero Edoardo!».

      Il dottor Marini non s’era più mostrato a San Fedele. La grippe… il morbillo…

      Aveva telefonato due volte e tutte e due le volte De Vincenzi gli aveva risposto: «Nulla di nuovo!… Ma lasciamo andare il delitto, dottore. Mi dica: quand’è che mi farà assistere a una seduta spiritica? Lo sa che non sono più un profano, oramai? Non faccio che leggere libri di spiritismo, giorno e notte…».

      L’altro aveva riso dentro il microfono e poi era andato in giro a dire: «In che mani è riposta la protezione dei cittadini! Il migliore di quei tipi, che hanno il dovere di scoprir gli assassini, si è messo a studiar testi spiritici, invece di fare il poliziotto! Se non è matto, incosciente lo è di certo!».

      E il Questore, senza arrivare a una conclusione tanto severa, che De Vincenzi fosse un po’ tocco cominciava a crederlo anche lui.

      Lo aveva chiamato al redde rationem e il commissario, dopo averne ascoltata la paternale, s’era limitato a rispondere: «Commendatore, forse scoprirò l’assassino e l’arresterò; ma mi ci vogliono otto giorni. Se lei mi lascia fare per otto giorni, all’ottavo o le conduco nel suo ufficio colui che ha ucciso il senatore e la ragazza o ci vengo da solo a presentarle le dimissioni».

      «Una bella prospettiva!» aveva masticato tra i denti il Questore. «Che vuole che mi facciano le sue dimissioni, se con ogni probabilità dovrò darle anch’io?».

      Poi gli aveva concesso quegli otto giorni; ma si era affrettato a mandare a Roma un rapporto dettagliato di tutto, chiedendo istruzioni.

      Otto giorni.

      Ne erano passati tre.

      Al terzo si ebbe un piccolo colpo di scena. Una farsa nella tragedia. Ma fu quell’intermezzo grottesco, che valse a scuotere il torpore di De Vincenzi.

      Alla mattina, il Questore chiamò Sani nel proprio ufficio e il vicecommissario mandò subito Cruni a svegliare il suo Capo. La vecchia Antonietta esalò ancora tutti i suoi lamenti e De Vincenzi si limitò a ordinarle: «Portami il caffè. Preparami il bagno».

      Per la strada non interrogò neppure Cruni e fu il brigadiere, che, dopo un lungo silenzio, non poté più trattenersi dal dirgli: «Lo sa, dottore? Sembra che il Commissariato di via Meda abbia trovato la pista buona…».

      «Di che?» chiese De Vincenzi.

      «Dell’assassino…».

      «Bene».

      La pista buona! Come se l’assassino avesse lasciato una pista!

      Aveva passato lo straccio sulla polvere, questo aveva fatto, per segnare una traccia, che doveva servire soltanto a ingannar la Polizia. E aveva rubato un libro…

      Su dal Questore trovò, infatti, proprio il commissario di via Meda. Era un pezzo d’omaccione robusto e ventruto, con due baffoni da maresciallo dei carabinieri. Un buon uomo, in fondo, il cavalier Roberti, nonostante quel suo aspetto da tiranno dei burattini; ma con una fregola spasimosa di distinguersi e di farla a quelli della Centrale.

      Aveva i baffi più minacciosi del solito e gli sguardi lucenti. Le pupille nere sembravano due carbonchi.

      «Ah! De Vincenzi… Sembra che ci siamo, questa volta! Senta un po’ che cosa dice Roberti».

      «Buon giorno» augurò con affabilità De Vincenzi al collega. «Così, ci porti il tuo aiuto, eh! Ne avevamo bisogno davvero… Che hai trovato?».

      Roberti arrossì leggermente.

      «Veramente, io non ho trovato! Ma uno dei nostri “Confidenti” sembra che la sappia lunga. Dice di avere avuto la confessione completa dei delitti dall’autore stesso del duplice assassinio…».

      «Ah! Un “confidente!”…» mormorò De Vincenzi. «E l’autore del duplice assassinio sarebbe?».

      «Un pregiudicato di circa sessant’anni, ma valido ancora e robusto. Che vive per le cascine e le campagne di Milano, rubando e rapinando…».

      «Avrebbe agito per mandato, allora?».

      «Naturalmente» rispose Roberti; ma la brevissima esitazione che aveva avuta diede a De Vincenzi il sospetto che egli non si fosse molto preoccupato di quel particolare.

      «Per mandato di chi?» chiese il Questore, che osservava attentamente i suoi due sottoposti.

      L’imbarazzo del commissario di via Meda fu evidente.

      «Il mandante lo conosceremo, quando avremo arrestato l’individuo…».

      «E questo suo “confidente?”…».

      «È giù… Se lo vuol vedere…».

      Il Questore meditò un istante. Era più azzimato, più lisciato, più tirato a quattro spille del solito, quella mattina; ma gli occhi gli brillavano rapidi e penetranti.

      Corrugò la fronte.

      De Vincenzi l’osservava e sorrideva dentro di sé, perché si rendeva conto che due opposti sentimenti combattevano in lui: il desiderio di sincerarsi subito da solo dell’attendibilità di quella deposizione e il timore di compromettere la propria autorità, se quella testimonianza fosse risultata vana e magari grottesca.

      Il