Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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la verità!».

      «Lasciate in pace il Cristo. Non vi ho ancora accusato di menzogna».

      «È stato per caso… Sentivo parlare di un cappello quasi nuovo e di un soprabito da donna, che volevano vendere… Chi ce li ha? domandai. Avevo capito che si trattava di oggetti rubati… Ma il giovanotto che li offriva non volle dirmi nulla… Fu soltanto quando lo ebbi fatto bere, che accennò al bigatt…».

      «E questo bigatt sarebbe?».

      «Il nome vero non lo so; ma è conosciuto al Carrobbio e per tutto il quartiere di Porta Ticinese… È vecchio ma è terribile… Anche i giovani lo temono… Io l’ho cercato e ieri notte, finalmente, l’ho trovato… Mi condusse in una cascina verso Monza… È la cascina di un fornaio, che gli dà ricetto nel fienile, perché lui gli fa qualche servizio… Sotto il fieno… nascosti… il bigatt mi mostrò un soprabito da donna e un cappello floscio di feltro… quasi nuovo… Nell’interno c’erano ancora due cifre in oro: un U e un M… Non so perché… ma soprattutto per gli occhi che faceva il vecchio, quando toccava quegli oggetti ebbi come in un lampo la rivelazione di qualche cosa di mostruoso… I giornali hanno parlato molto del soprabito e della borsetta di Norina Santini, che non si sono ritrovati nella Darsena di Porta Ticinese, né altrove… Pensai che quello potesse essere il soprabito della ragazza… Chiesi all’improvviso al bigatt: «E la borsetta dove l’hai messa?». Lui si turbò. Mi guardò con occhi striati di sangue. «Sei una spia?» mi chiese ferocemente. Mi misi a ridere. Gl’inventai tutta una storia di delitti e di condanne. E poi gli dissi: «Andiamo a bere. A respirar l’aria di tutto questo fieno m’ha messo sete». Venne. Lo feci bere più che potei. Finalmente, parlò. È stato lui, che ha ucciso il senatore e la ragazza. Mi ha mostrato anche il “rebattin” con cui ha sparato e in quanto alla Santini… le garantisco che, soltanto a guardar le mani di quel vecchio, vengono i brividi!…».

      De Vincenzi lo aveva ascoltato, senza interromperlo, immobile.

      «I connotati del bigatt, naturalmente, tu puoi darmeli, vero?».

      L’altro riprese a parlare con quella sua voce monotona, come se recitasse una lezione.

      «Un vecchio ancora valido… Ha l’aspetto sornione e repugnante. Gli occhi piccini mandano sprazzi vivi ira le palpebre arrossate…».

      «Aspetta!» intimò De Vincenzi e andò all’uscio della camera.

      «Sani!» disse. «Chiama Cruni e venite tutti e due qui».

      Lo scaccino s’era voltato sulla seggiola a guardare dove andasse e che facesse. Sembrava preoccupato.

      Quando lo vide tornare, riprese: «Ha i capelli grigiastri…».

      «Aspettate, vi ho detto!».

      De Vincenzi di solito così gentile con tutti, con costui aveva una insolita ruvidezza, quasi ne provasse ribrezzo.

      Entrarono Sani e Cruni.

      «Sani, ti prego, scrivi quanto quest’uomo dirà. E, tu, Cruni, ascoltalo bene».

      Il vicecommissario sedette al tavolo di De Vincenzi e si preparò con la penna in mano.

      «Ripetete, voi; ma prima date le vostre generalità».

      L’uomo si alzò. Raccolse il cappello. Si avvicinò al tavolo.

      «Angelo Panzeri… fu Antonio… di Intra… nato nel 1880… Ma, commissario, le giuro sul Cristo che ho detto la verità».

      «Ebbene, ripetetela un po’ tutta da principio la vostra verità…».

      Lo scaccino ricominciò il racconto. Quasi le medesime parole della prima volta! Sembrava d’ascoltare un fonografo. E ogni tanto guardava di sottecchi De Vincenzi e quei suoi occhi spenti sembravano illuminarsi di malizia, come pensasse: «Se speri di cogliermi in contraddizione ti sbagli!».

      Ma quella era proprio l’unica cosa che De Vincenzi non sperava.

      Quando ebbe finito, il commissario prese l’ultimo foglio scritto da Sani e lo mise davanti all’uomo, poi gli tese la penna.

      «Firmate. È la vostra deposizione».

      Lo scaccino esitò, poi afferrò la penna e firmò.

      «Sta bene… Cruni, accompagnalo di là, nel corpo di guardia… Poi torna da me immediatamente».

      «Mi trattiene?» gemette l’uomo.

      «No!» gli rispose De Vincenzi, facendo uno sforzo per sorridergli. «Vi pare?… Ma ho bisogno di voi e in qualche luogo vi debbo pur mettere…».

      Quegli uscì lentamente, guardandosi attorno.

      «Gli credi?» chiese Sani, quando fu scomparso.

      «Una parte di verità, la dice. E questo è il terribile, perché tutto il resto delle sue menzogne si puntella appunto su quella verità».

      Prese il cornetto del telefono: «Chiama l’Agenzia d’Informazioni Private di Harrington e digli che gli voglio parlare subito…».

      Cruni rientrava.

      «Sentite, Cruni. Cercatemi il bigatt. Per questa notte, dovete averlo preso a ogni costo».

      «Ci saranno almeno dieci bigatt fra i pregiudicati di Milano…».

      «Di questo avete i connotati. Bisogna trovarlo…».

      «Farò il possibile, dottore» e Cruni uscì, scuotendo la testa.

      Con quel suo buon senso semplice e incapace di sottigliezze tortuose, il brigadiere non credeva neppure che l’uomo descritto dallo scaccino esistesse.

      De Vincenzi si mise a passeggiare.

      Sani si alzò.

      «Ti lascio solo» disse, quando fu sulla porta.

      Il commissario sorrise.

      «Grazie. Ma adesso non ho più bisogno di solitudine. È cominciata la fase decisiva…».

      «Allora, tu pensi che prenderemo il bigatti».

      «Certo che lo prenderemo!».

      «È lui che ha assassinato il senatore e la cameriera?».

      «Questo è un altro conto!…».

      E De Vincenzi rise, come non rideva da quella mattina, in cui gli avevano portato l’involto coi ferri chirurgici e in cui s’era trovato davanti al cadavere del senatore Magni, disteso fra i libri e la polvere del negozio di via Corridoni.

      R

      Harrington

      Fu proprio a notte fatta, come aveva preveduto De Vincenzi, che Cruni tornò, recando con sé il bigatt. Erano le ventiquattro circa.

      Lo aveva arrestato alla Cascina Maria, alle porte di Monza, mentre dormiva. E buon per lui che non vi fosse andato solo, perché quel vecchio aveva opposto una resistenza accanita, springando calci e pugni e dando morsi, come un molosso.

      Quando lo portarono giù dall’automobile, ammanettato e ravvolto in un ferraiolo da brigante, con un cappellaccio sugli occhi, lo dovettero quasi trasportare di peso fin dentro gli uffici della Squadra, perché, per difendersi, Cruni e i due agenti che aveva con sé gli avevano dato una tale dose di botte da orbi, che quello non ce la faceva neppure a star ritto.

      Cadde sulla seggiola e vi rimase, girando attorno sguardi da belva incatenata. De Vincenzi ebbe un fremito. Non aveva mai veduto tanto odio addensato nelle pupille di un uomo.

      «Togligli il cappello» disse a Cruni.

      Il ritratto fatto dallo scaccino corrispondeva abbastanza al vero. Era un brutto esemplare della razza uma na. Capellacci grigi, arruffati sul cranio, baffi grigi, spioventi, naso schiacciato