le impronte».
Sani e Cruni gliele presero, senza togliergli le manette.
«Va’ su e sveglia l’archivista. Voglio saperne il nome stanotte stessa».
Cruni, che zoppicava un poco per un calcio del vecchio, prese il foglio con quelle dieci ditate azzurre — s’eran serviti del tampone dei timbri — e uscì.
De Vincenzi scrutava quell’uomo e si chiedeva per quale caso grottesco e atroce si trovasse immischiato in una vicenda tanto estranea al suo essere.
Che fosse davvero l’assassino del senatore e di Norina non lo aveva mai creduto, e tanto meno lo credeva adesso che se lo vedeva dinanzi. Per nessuna ragione al mondo il senatore si sarebbe fatto avvicinare da un individuo di quella specie e si sarebbe indotto ad entrare con lui nella libreria, conservando una tranquillità e una fiducia tali da permettere che gli sparasse due colpi di rivoltella alle spalle.
E poi, come se non bastasse, poteva esser stato quella specie di bruto alcoolizzato ad asportare dallo scaffale un libro del cinquecento?
Ma, se non era l’assassino, poteva esser vero che si fosse trovato in possesso del cappello del senatore e del soprabito della ragazza.
«Avete trovato niente in mezzo al fieno?» chiese ai due agenti, che erano andati con Cruni.
«Il brigadiere ha cercato rispose uno di essi» ma non l c’era nulla…
«Va’ a prendermi nel corpo di guardia quel Panzeri…».
L’agente uscì.
Sulla seggiola, il vecchio cominciava a chiuder gli occhi, come se volesse dormire.
«Non lo farai parlare, neppure con le frustate» disse Sani.
«Lo credo anch’io!» esclamò De Vincenzi. «Ma anche se parlasse, non potrebbe dirci gran che!…».
Lo scaccino entrò, con quel suo volto assurdamente grigio e quegli occhi color di palude.
«È lui» disse subito, appena vide il vecchio.
«Lo so. E chi volete che sia?».
Il bigatt aveva aperto gli occhi. Guardò il «confidente» ed ebbe un lampo di meraviglia. Poi digrignò i denti e si agitò furiosamente sulla seggiola.
«Boia! Spia!» ruggì.
Lo scaccino indietreggiò spaventato, tendendo le mani a ripararsi.
«Non abbiate paura. È legato».
Il vecchio tornò subito calmo e ricominciò a fare il gattone sonnolento.
«Ripetete davanti a lui quel che avete detto a me!».
L’uomo rifece per la terza volta il racconto e neppur questa volta mutò quasi parola. Il bigatt sembrava non ascoltarlo.
De Vincenzi gli si avvicinò e lo scosse.
«Hai sentito? Lui ti accusa di avere ucciso il senatore Magni e Norina Santini!…».
«È un boia!» disse il vecchio.
«Ma è vero che li hai uccisi?».
«È un boia!».
«Allora, confessi?».
Per la terza volta, quasi non sapesse dir altro, ripeté: «È un boia!…».
Entrava Cruni con la pratica dell’arrestato.
«Ecco qua, dottore…».
Porse il fascicolo giallo. Era voluminoso. De Vincenzi lo sfogliò rapidamente.
«Ti chiami Francesco Ravizzani… Hai iniziato la tua carriera nel 1890 con un arresto per violenza carnale e da quel giorno le condanne e gli arresti si sono susseguiti interminabili. Dieci condanne per violenza carnale… quaranta circa, per furto… ferimento… ribellione…».
Alzò la testa e fissò il vecchio.
«Però, in sessant’anni non hai mai ucciso. Perché lo hai fatto questa volta?…».
Nessuna risposta. L’uomo lanciò uno sguardo di traverso allo scaccino, che tremava.
Cruni si avvicinò a De Vincenzi e gli disse a bassa voce: «Di là c’è Harrington, che ha chiesto se poteva assistere al confronto…».
«Che aspetti» fece De Vincenzi e ordinò agli agenti di mettere in guardina il vecchio. «Solo, naturalmente. Non deve vedere nessuno».
«Io posso andare?» chiese l’uomo di Harrington, quando furono usciti il brigadiere con l’arrestato.
«Ma no! Dove volete andare a quest’ora? Il brigadiere vi darà una coperta e dormirete tranquillamente…». Il tremore dell’uomo si accentuò.
«Ma allora, lei crede che io?…».
«Non credo nulla!… A proposito! Non è stato ritrovato né il cappello, né il soprabito…».
«Li avrà bruciati…».
«Già… Buona notte!…».
L’inconcepibile lividore di quel volto sembrò aumentare. Lo scaccino fece qualche passo verso la porta, poi tornò. De Vincenzi fingeva di non badargli: s’era messo al tavolo e si vedevano soltanto le sue mani, nell’alone della lampada, prendere alcuni fogli e ordinarli. Il resto della sua persona era in ombra. Sani stava in piedi, di fianco al tavolo, ombra nera lui pure. Tutta la luce veniva proiettata in mezzo alla stanza e, dentro quel cerchio luminoso, lo scaccino sembrava preso come in una rete di raggi.
Batteva le palpebre.
«Perché, se lei volesse ritenermi responsabile…».
«Voi siete responsabile di quel che avete scritto e firmato…».
«Io non ho avuto un centesimo per mentire».
«Lo dimostrerete».
«Alle sei c’è la prima messa… il parroco mi cercherà…».
«Non vi trovate qui, forse, per fare un’opera di bene?».
«Il vino nell’ampolla… debbo aprire la chiesa…».
Balbettava. Se De Vincenzi gli avesse dato soltanto un altro colpo, si sarebbe sgonfiato. Ma De Vincenzi non voleva.
«Sapete che c’è Harrington di fuori?».
Istantaneamente s’irrigidì.
«Allora, vuole proprio che vada a dormire in guardina?».
«Ve l’ho detto».
«Sì… Buona notte».
E uscì.
Rapidissimo De Vincenzi si lanciò alla porta.
«Harrington, venite…».
Il detective si allontanò con un balzo dal suo uomo, che gli si era fermato vicino per parlargli, e avanzò. La porta del cortile batté dietro le spalle dello scaccino.
Harrington s’era messo tutti i suoi gioielli peggio di una cortigiana. Anche lui, alla luce della lampada, batté le palpebre. Il brillante della cravatta e quelli delle dita mandarono sprazzi rossigni. Piccolo, con quel suo volto trasudante malizia, il detective non sembrava tranquillo.
«Vi ho fatto chiamare alle undici di questa mattina e vi presentate a mezzanotte!».
«Ho un da fare da cani, cavaliere! Non c’è respiro! E poi le avevo mandato Panzeri… Più di quanto può dirle lui!… Ha fatto un bel lavoro, eh!».
«Sedetevi, Harrington. Credo che il nostro colloquio sarà piuttosto lungo».
Quello batté di nuovo le palpebre e si mise la mano ingioiellata davanti agli occhi.
«Ma questo è un