se il condannato in carcere viene trattato come un soggetto di diritto, se gli viene riconosciuto ad esempio il diritto di vedere sua moglie, suo figlio oppure di telefonare con loro regolarmente, lo Stato non viola la sua dignità. Se, invece, è costretto a vivere in una cella di 3 m2, in condizioni igieniche pietose e senza alcun contatto con la sua famiglia, lo Stato non lo riconosce come soggetto.
La violazione della dignità umana, infatti, inizia lì dove lo Stato tratta un cittadino come un oggetto di diritto (ted.: Rechtsobjekt): se lo Stato riduce un uomo ad un mero oggetto, l’art. 1 della Costituzione tedesca lo ammonisce. L’art. 1, infatti, è l’unico articolo relativo ai diritti fondamentali che il legislatore non può cambiare o, addirittura, abolire (vedi art. 79 comma 3 del Grundgesetz).
E quando, tipicamente, lo Stato riduce ad oggetto un uomo? Un tipico caso di violazione dell’art. 1 è il seguente: nel 2002 lo studente Magnus Gäfgen sequestra il figlio minorenne di un noto banchiere di Francoforte sul Meno, l’undicenne Jakob von Metzler. Dopo l’arresto – Jakob non era ancora stato ritrovato –, i poliziotti sottoposero Magnus Gäfgen ad un asfissiante interrogatorio per scoprire dove fosse il ragazzino. Dopo qualche ora – il presidente della polizia di Francoforte – Wolfgang Daschner, ordinò di minacciare Gäfgen per far sì che l’indagato indicasse il luogo del sequestro. Il commissario Ennigkeit, a quel punto, eseguì l’ordine e minacciò Gäfgen giurandogli di fargli sentire “dolori tremendi” che non avrebbe mai più dimenticato in tutta la vita.
La Corte federale di Karlsruhe (ted.: Bundesgerichtshof) ha stabilito che “minacciare con la tortura equivale a torturare”21: la tortura, in senso stretto, rappresenta la negazione della dignità umana dell’indagato, in quanto lo Stato non lo riconosce più come un soggetto di diritto, assoggettandolo fino a negarne l’esistenza come portatore di diritti. In altre parole: uno Stato che tortura un criminale è esso stesso criminale. Gäfgen, tuttavia, fu condannato all’ergastolo: il piccolo Jakob, infatti, venne ritrovato morto. Era stato ucciso da Gäfgen poco dopo il sequestro. Ma anche il presidente della polizia Daschner e il commissario furono condannati (rispettivamente ad una sanzione pecuniaria con relativa condizionale di un anno).
Questo caso fece esplodere un’accesa discussione: può uno Stato torturare per salvare la vita di un cittadino? La risposta della Corte Costituzionale22 fu chiara e indubbia: no. Uno Stato non può violare la dignità umana, neanche quella di un cittadino che commette un reato. Costi quel che costi.
Il principio di eguaglianza (art. 3 Grundgesetz)
Non si può parlare di diritto senza addentrarsi in uno dei principi fondamentali del diritto stesso, vale a dire: l’eguaglianza (ted.: Gleichheit). Un principio che, a partire dallo spirito repubblicano che ha portato alla rivoluzione francese, ha le sue origini profonde nell’illuminismo, nei trattati di filosofi come Immanuel Kant oppure Jean-Jacques Rousseau.
Perché, in fondo, siamo portati ad enfatizzare questo principio? Perché, in fondo, siamo uguali quando si parla di diritto? Fisicamente, biologicamente e – ancor di più – caratterialmente siamo unici, unici nel mondo. Ognuno di noi è diverso dall’altro, proprio come ogni nuvola in cielo è diversa dall’altra. Eppure, qualcosa ci spinge ad affermare che senza eguaglianza un ordinamento giuridico non sarebbe “giusto“ oppure “equo”, ma piuttosto, discriminante, non idoneo a garantire una “giusta“ sentenza, un atto amministrativo “equo” oppure – in termini politici – una giustizia sociale (ted.: soziale Gerechtigkeit).
Per capire la legittimità del principio di eguaglianza, bisogna partire da un altro fondamento: la dignità. La dignità dell’uomo è quel valore implicito ad ogni persona, un valore naturale che acquistiamo (al più tardi) con la nascita e ci preserva un ruolo speciale nell’ordinamento: quello di “soggetto di diritto”. La dignità umana, infatti, è violata quando lo Stato tratta l’individuo come oggetto e, appunto, non più come soggetto. La dignità umana non conosce una misura: ha sempre lo stesso valore, indipendentemente dal ruolo sociale che svolge una persona. Un ingegnere ha la stessa dignità di un senzatetto. Una persona con la fedina penale pulita ha la stessa dignità di un pregiudicato – e così via. L’eguaglianza, dunque, sembra essere fondamentalmente legata alla dignità: e, difatti, siamo uguali davanti alla legge proprio perché abbiamo pari dignità.
Eguaglianza davanti alla legge significa che la legge si applica a tutti. Il principio fu esaurientemente formulato già nel preambolo della Costituzione francese del 3 settembre 1791, laddove si afferma che nel nuovo ordinamento “non c’è più nobiltà, né paria, né distinzioni ereditarie” ecc. Il principio di eguaglianza, sotto questo profilo, costituisce l’altra faccia del principio della generalità della legge: infatti, l’articolo 6 della Dichiarazione dei diritti del 1789 aveva stabilito che la legge è “l’espressione della volontà generale”. Essa “deve essere la medesima per tutti, sia che protegga sia che punisca. Tutti i cittadini sono eguali ai suoi occhi”. Motivo per cui le statue che rappresentano la dea della giustizia sono sempre bendate: la iustitia dev’essere cieca davanti alle controparti di un qualsivoglia processo. Il che implica, di conseguenza, che sono vietate leggi ad personam, leggi speciali o eccezionali.
Ma l’art. 3 del Grundgesetz va oltre all’eguaglianza formale: la realtà dei rapporti materiali, infatti, presenta situazioni di profonda diversità. È inutile negare l’evidenza: chi nasce in una famiglia ricca, ha più opportunità di chi nasce in una famiglia disagiata e meno abbiente. Ecco perché la Costituzione richiede che lo Stato rimuove gli ostacoli che si frappongono al godimento concreto dei diritti da parte di tutti. Un principio questo, che suona come una chimera ai nostri tempi: ovunque, anche in Germania, i cittadini si sentono in disagio e, appunto, necessitano dell’aiuto da parte dello Stato per sbarcare il lunario e sopravvivere, giorno per giorno.
Ma, a tal proposito, bisogna constatare che, prima di chiamare all’ordine lo Stato, dobbiamo capire che lo Stato, in fondo, siamo noi cittadini. Non possiamo pretendere uno Stato equo e giusto se non iniziamo da noi stessi. Se un imprenditore è disposto a pagare ad un uomo un salario maggiore rispetto ad una donna, se un’azienda non assume uno straniero perché è straniero, se non accettiamo l’inquilino perché è di fede islamica, non possiamo pretendere che lo Stato faccia diversamente. Le cariche dello Stato, gli impiegati statali, gli insegnanti ecc. – che formano il corpo di uno Stato – non rispettano la Costituzione automaticamente solo perché indossano una divisa oppure sono responsabili di un ente. La rispettano solo se hanno sposato in pieno i principi della Costituzione, se la sentono parte del loro pensiero, se ne condividono lo spirito.
La fine delle “razze”
Un tema che riguarda l’eguaglianza è proprio l’uso della parola “razza”. Dopo la morte di George Floyd23 negli Stati Uniti, il leader dei Verdi (ted.: Die Grünen), Robert Habeck, propose di cancellare dall’art. 3 della Costituzione tedesca la parola “razza”. L’articolo afferma infatti che “nessuno può essere discriminato o privilegiato a causa del suo sesso, la sua discendenza, la sua razza, la sua lingua, il suo paese, la sua origine o le sue convinzioni religiose e politiche”.
È indubbiamente vero che le parole sono anche atti, dei quali è necessario fronteggiare le conseguenze. Esse sembrano non avere peso e consistenza, sembrano entità volatili, ma sono in realtà meccanismi complessi e potenti, il cui uso genera effetti e implica responsabilità: le parole – possiamo dire – “fanno le cose”, come suggerisce, fin dal titolo, un libro celebre del linguista John L. Austin24. La parola, dunque, non nasce dall’idea, bensì l’idea deriva dalla parola.
La domanda da porre, a questo punto, è quella che va in direzione contraria: cancellando le parole si possono eliminare anche le idee? In altre parole: cancellando il termine “razza” – che nella scienza non ha più una ragione d’essere – tramonterebbe anche il razzismo? Mi pare ovvio, purtroppo, che non sia così. Sarebbe come sostenere che eliminando la parola fascista, si potrebbe sancire la fine del fascismo – magari, mi verrebbe da dire!
In altre parole: la Costituzione non dice ai cittadini che le razze esistono, ma che il razzismo dev’essere sconfitto, che il razzismo