sistemato e il suo rossetto rosa privo di qualsiasi sbavatura. Voleva che Shelley le sorridesse e le dicesse qualcosa del tipo, “Sei pronta, Z?”; voleva che salissero su un aereo e andassero a risolvere un caso di omicidio insieme, e che andasse tutto bene.
Ma non sarebbe successo, perché Shelley non era più lì. Shelley ormai era sotto terra. Zoe aveva assistito al suo funerale, aveva visto calare la bara nella fossa appena scavata mentre suo marito e sua figlia erano fermi lì, accanto alla tomba, a guardare. Avrebbe voluto dire qualcosa in quel momento, ma non c’era riuscita. Voleva dire qualcosa adesso, ma le risultava ancora impossibile. E in fondo, non meritava quel sollievo.
Il marito di Shelley era rimasto senza una moglie. Sua figlia era rimasta senza una madre. Zoe avrebbe potuto bussare alla porta e dir loro che le dispiaceva, che era stata tutta colpa sua, che non era stata in grado di impedirlo. Avrebbe potuto assumersi tutta la responsabilità, prendere sulle spalle il peso del loro odio o qualsiasi cosa volessero lanciarle addosso, purché potessero sentirsi meglio.
Ma che fosse per il loro o per il suo stesso bene, non poteva farlo. Non era soltanto una questione di cosa meritasse. E neanche una questione di coraggio. Zoe guardò la casa e cercò di pensare a cosa avrebbe potuto dire loro, ma tutto ciò a cui riusciva a pensare era che la casa aveva cinque finestre che si affacciavano sulla strada, ciascuna suddivisa in quattro vetrate; la porta era alta un metro e novantotto centimetri; il vialetto che conduceva alla porta d’ingresso era lungo un metro e ottantatre centimetri e aveva dodici lastre per pavimentazione, ciascuna delle quali aveva una lunghezza di quindici virgola ventiquattro centimetri, o sei pollici, o zero virgola centosessantasette iarde, o…
Zoe non aveva niente da dire loro. Aveva soltanto i suoi numeri. Si allontanò da quella casa conosciuta e da tutte le sue dimensioni, costringendosi a tornare verso casa. Ogni volta che finiva qui, si sentiva ancora peggio di quando era uscita. Eppure i suoi piedi continuavano a portarla in questa direzione.
Avrebbe dovuto smettere completamente di uscire. Non valeva la pena rischiare.
E Zoe non riusciva a vedere alcuna via d’uscita da tutto questo disastro che lei stessa aveva creato. Poteva soltanto restarsene seduta in casa e lasciare il telefono spento, ignorare le chiamate che sarebbero arrivate una volta terminato il periodo di sospensione e lasciare che tutto svanisse come nebbia nei ricordi di qualcun altro.
CAPITOLO DUE
Elara Vega guardò il suo orologio e inarcò un sopracciglio, un gesto rivolto solo a se stessa. In fin dei conti era sola, lì; i suoi colleghi erano andati via alle sei in punto, al termine della giornata lavorativa. Ma il lavoro era tutto per Elara, lo era sempre stato.
No, non era proprio così, pensò, mentre raccoglieva le sue cose e ordinava gli appunti per il mattino seguente. C’era stato un periodo in cui ad avere importanza erano state altre cose. Aveva cresciuto suo figlio, e per un certo tempo c’era stato anche suo marito, dal quale però aveva divorziato vent’anni fa. Due anni dopo, suo figlio si era trasferito in un’altra città per frequentare il college e da allora era rimasta da sola. Ma le andava bene così: soltanto lei, le stelle e i pianeti, eterni seppur fugaci.
Elara guardò con attenzione quella sua scrivania così ordinata, assicurandosi che non ci fosse qualcosa fuori posto. In cinquantanove anni di vita aveva imparato che tenere le cose in ordine era molto meno faticoso che sistemare un pasticcio.
Soddisfatta, Elara prese il suo cappotto dallo schienale della poltrona e lo indossò, dirigendosi verso la porta. Era ancora intenta a raddrizzare il colletto quando arrivò nell’atrio, dove un inserviente stava lavando i pavimenti. Le dispiaceva sempre quando restava fino a tardi e intralciava il lavoro degli addetti alle pulizie, camminando sul pavimento appena lavato.
Il planetario era organizzato con gli uffici, le stanze del personale e le sale eventi che si diramavano dall’anfiteatro centrale, che a sua volta conduceva direttamente all’atrio principale e da lì alle porte d’ingresso. Elara uscì in quello spazio buio, sempre un po’ inquietante di notte quando l’intero edificio era avvolto dalle tenebre e i posti a sedere erano vuoti. Le ricordavano sempre quei film apocalittici in cui i personaggi si imbattevano in qualcosa di toccante: un teatro abbandonato, i rivestimenti delle poltrone che si rovinavano lentamente, le apparecchiature di proiezione ormai in rovina. Si incamminò velocemente verso la tranquillità dell’atrio e dell’aria frizzante della sera.
Era arrivata a metà strada quando sentì un ronzio familiare: il suono meccanico del proiettore che entrava in funzione. Elara tentennò e si guardò attorno perplessa e meravigliata. Le stelle e i pianeti si erano improvvisamente illuminati sulla sua testa, volteggiando fino a collocarsi ciascuno al proprio posto per l’inizio della presentazione. L’aveva visto centinaia di volte; aveva persino preso parte alla verifica dell’accuratezza delle nuove mappe celesti qualche anno fa, quando erano state aggiornate, ma trovarsi nel bel mezzo di quello spettacolo in un modo così insolito era qualcosa di completamente nuovo per lei. Si sentiva come se potesse allungare una mano e toccare le stelle…
Ma chi era stato ad accendere il proiettore? Tutti i suoi colleghi erano tornati a casa da un pezzo e non avrebbe dovuto essere acceso a quest’ora. La musica d’orchestra iniziò a suonare, talmente forte da coprire tutto il resto. Elara aggrottò la fronte e iniziò a voltarsi, pensando che sarebbe stato il caso di dare un’occhiata alla sala di proiezione…
Invece si ritrovò a fissare il pavimento, in ginocchio. Com’era finita in quella posizione? Appena un minuto prima, era stata… ma avvertì un dolore alla nuca, ricordò un impatto fragoroso, più assordante della musica stessa, e scoprì che le sue gambe non erano più in grado di reggerla, e neanche le sue braccia, e che tutto stava pulsando…
Sentì anche qualcos’altro, qualcosa alla nuca, un nuovo dolore… una mano che la stringeva con forza, senza riguardi per la sua delicata pelle. Elara tentò vagamente di divincolarsi, ma la mano la strinse più forte e il dolore le arrivò da un luogo ancora più distante. Forse da un altro pianeta, un corpo celeste avvolto dalla distanza e dalla luce di altre stelle. Si stava muovendo. No, qualcuno la stava portando da qualche parte. Le sue gambe strisciavano impotenti a terra.
Elara lottò per rialzarsi, per impedire ai suoi piedi di scivolare su quel pavimento liscio, ma niente sembrava funzionare; la musica era talmente assordante, le luci così accecanti. Qualcosa di caldo le stava colando dalla fronte, finendole negli occhi. Si ritrovò a guardare in basso, verso qualcosa di rotondo, di metallico, che conteneva qualcosa che scintillava e si muoveva, una superficie che rifletteva la luce, e poi…
L’acqua fredda fu uno shock per il suo corpo e la fece ansimare ad alta voce: quella fu l’unica reazione che riuscì a comprendere con lucidità da quando aveva visto accendersi il proiettore. Peccato che fosse anche una reazione del tutto inappropriata in questo caso: sentì l’acqua – e non l’aria – invaderle la bocca e scendere in gola, provando una sensazione di panico che dissipò le nebbie della confusione e del dolore alla testa. Capì che doveva assolutamente uscire da lì, scappare, tornare in superficie, tornare a respirare.
Elara lottò con tutte le sue forze, aggrappandosi ai lati del secchio di metallo e sentendolo agitarsi sotto di sé, ma era tutto inutile. Sulle sue spalle c’era un peso che la teneva giù e le impediva di alzare la testa e uscire dall’acqua. La sua vista iniziò a oscurarsi; davanti ai suoi occhi comparvero minacciose macchie nere, che lottavano e danzavano con gli sprazzi di luce che filtravano nell’acqua, mentre lei si agitava nel disperato tentativo di sollevare la testa.
Elara cercò con un ultimo sforzo di lanciarsi all’indietro, di ribaltare il secchio, ma la sua gola era ormai in preda agli spasmi e la vista si stava annebbiando del tutto, e capì di non avere più speranze. Una contrazione dolorosa al petto la costrinse a cercare di respirare ancora una volta, ma non ci riuscì. E infine calò un’oscurità talmente assoluta da non permetterle di vedere più nulla, neanche i bagliori di stelle lontane milioni di anni luce, che morivano in un’altra galassia o che forse erano già morte.
CAPITOLO TRE
Zoe dovette fermarsi due volte mentre camminava in cucina, prendendosi la testa tra le mani e ansimando. Aveva bisogno di reidratarsi. Si voltò verso la parte anteriore della stanza e le finestre,