Margherita Guglielmino

Una Bellissima Storia Sbagliata


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il suo compleanno, i jeans blu scoloriti e le scarpe da ginnastica. Il viso acqua e sapone senza un filo di trucco, con l’immancabile burro cacao alla pesca e gli occhiali quadrati sul naso, nessun gioiello, nessun vezzo, come poteva competere con lei, come poteva anche solo immaginare che Giorgio scegliesse lei.

       Sara, con un passo sicuro che la spiazzò le si avvicinò, le sorrise e mise una mano davanti a lei dicendole che era felice di conoscerla.

       Luisa la strinse confusa, dentro di sé si sentiva un verme, ma continuava a stringere la mano di quella donna per la quale non sapeva bene che sentimenti provare.

       Mentre dava da mangiare ai piccioni, raccontava a quello sconosciuto pezzi della sua vita, seduta su quella panchina del parco, Luisa evitava di guardarlo negli occhi.

       Era confusa non riusciva a smettere di raccontare, eppure non era da lei, non sapeva nulla di lui, fino a quella mattina Andrea Conti non sapeva neanche chi fosse.

       Tuttavia parlare con quello sconosciuto la faceva sentire bene, le dava pace, come quando dopo la confessione il prete dava l’assoluzione, non temeva nessun giudizio, su quella panchina non era la dottoressa Martinelli, non era la figlia del rettore, non era la nipote del premier, era semplicemente Luisa, una donna terribilmente fragile che era cresciuta senza amore e che si era innamorata dell’uomo sbagliato.

       Dopo quei due giorni sarebbe tornata a Bologna, avrebbe ripreso la sua vita, ma il suo bagaglio sarebbe stato più leggero perché l’aveva condiviso con un’altra persona. Non era come parlare con Anna o Fabrizio, loro le volevano bene, la giustificavano, la compativano, ma lei aveva bisogno di sentirsi dire in faccia che era una stronza, che aveva fatto una cosa bruttissima, non solo era stata l’amante di un uomo sposato ma per giunta era diventata amica della moglie, ne aveva carpito la fiducia e l’aveva pugnalata alle spalle. Era stanca di commiserarsi, di piangersi addosso per aver perso Giorgio, lei non era la vittima ma era il carnefice di sé stessa e degli altri.

       Raccontò di come Sara le chiese di aiutarla con Asmait, di come lei e Giorgio non tornarono più in Sierra Leone ma si trovarono a lavorare fianco a fianco al Bambin Gesù, di come ogni sera uscendo dall’ospedale li andava a trovare nell’ appartamento che Sara aveva trovato per la sua nuova famiglia, di come Asmait sembrasse felice con lei e di come ne fosse terribilmente gelosa.

       Di come una sera seduti sul divano mentre Asmait dormiva rannicchiata accanto a sé, Giorgio approfittando della cecità della moglie iniziò ad accarezzarla, di come lei non seppe resistere e di come da quel giorno i due tornarono ad essere amanti.

       Ogni scusa era buona per fare il turno in ospedale insieme, ogni scusa era buona per intrecciarsi le mani sotto il tavolo o baciarsi all’improvviso con la scusa di prendere il vino in cantina. Era uno strano equilibrio, un cerchio che si incastrava a pennello: Luisa aiutava Sara con Asmait, Sara era completamente presa dalla bambina e Luisa poteva al tempo stesso stare con Giorgio e con la piccolina. A volte quando rientrava nella grande casa sull’Appia dopo aver fatto l’amore con Giorgio si sentiva terribilmente in colpa ed aveva paura che quella felicità sporca e rubata avrebbe avuto un prezzo e che il destino prima o poi sarebbe passato a battere cassa.

       Erano trascorsi alcuni mesi da quando tutto era iniziato, Natale era alle porte, il primo Natale di Asmait in Italia.

       La bimba era emozionata, nel suo paese non esisteva nulla di tutto ciò, non c'era la neve, l’ albero, il presepe, i regali e l’atmosfera di festa.

       Quella mattina il telefono suonò di buon’ora.

       Era Sara, aveva accompagnato Asmait alla scuola dell’infanzia internazionale e voleva andare in giro per Roma a fare shopping, voleva regalare ad Asmait il suo primo albero di Natale e voleva che Luisa, la sua amica Luisa le facesse compagnia.

       Sara era un’iniezione di energia, nonostante la sua disabilità era una forza della natura.

       Dopo i numerosi acquisti, chiese a Luisa di andare in un bar a bere un buon caffè. Erano a Trinità dei Monti e la scalinata di piazza di Spagna era bella da togliere il fiato ma Sara non poteva vederla, questo pensiero balenò per un attimo nella mente di Luisa, l’amica come se l’avesse intuito, le disse:

       - Ehi tutto ok? Ti sei zittita all’ improvviso.

       - Si, certo - rispose Luisa mascherando un certo imbarazzo.

       - Meglio così, perché davanti a questa meraviglia non si può essere giù. Sai da piccola venivo spesso a Roma con i miei genitori e a 25 anni ho sfilato con i miei gioielli proprio su questa scalinata. Ho un immagine nitida di ognuno dei 136 gradini - disse sorridendo.

       E poi continuò:

       - Luisa devo parlarti. Ormai sono qui da 5 mesi, amo Roma ma la mia vita è a Milano, lì ho il mio lavoro, le mie abitudini, il mio ambiente e tu capisci bene che nella mia condizione non è una cosa da poco.

       A casa mia so muovermi con una certa destrezza, qui è difficile, devo costantemente contare i passi che dividono il bagno dalla cucina o dalla stanza di Asmait.

       Quindi ho parlato con le assistenti sociali, le pratiche di adozione sono a buon punto e Asmait ormai ci considera la sua famiglia, perciò ho deciso che è giusto tornare a casa.

       Stasera ne parlerò con Giorgio, volevo prima che lo sapessi tu perché so quanto ami quella bambina, ma ovviamente casa nostra per te sarà sempre aperta.

       Quelle parole furono un pugno nello stomaco per Luisa. Avrebbe nuovamente perso Giorgio e la sua piccolina con quei ricci ribelli e quegli occhioni neri e profondi come l’ebano, gli stessi occhi di sua madre, che Luisa aveva scolpiti nei suoi ricordi, ma non voleva che quel dolore prendesse il sopravvento quindi disse semplicemente:

       - Quando partirete?

       - Pensavo dopo Natale. Era già previsto che trascorressimo il capodanno su dai miei, ma dopo le vacanze resteremo a Milano.

       Il giorno dopo nello sguardo di Giorgio c'era tutto il dispiacere per quella nuova piega che avrebbe preso la sua storia con Luisa.

       Si capirono all’istante , le parole erano superflue tra di loro, loro parlavano con gli occhi, con le mani e col cuore.

       La vigilia di Natale arrivò, erano tutti nel salone della grande casa di Luisa, ospiti del professore Martinelli.

       Asmait sgranava i grandi occhi neri, era uno stupore continuo, l’albero, i regali, Babbo Natale e le luci colorate che con un pulsante cambiavano intensità. Fu una cena formale come quelle che di solito davano in quella casa ma Asmait aveva portato un pizzico di allegria e perfino donna Bianca sembrava più umana del solito, tanto da lasciare la sua stanza e cenare con loro nel grande salone vittoriano.

       Pochi minuti dopo la mezzanotte squillò il cerca persone di Luisa. Era l’ospedale, c'era un’emergenza e lei quella notte era reperibile.

       Lo stupido rituale dei botti di Capodanno adesso aveva contagiato anche il Natale, un bimbo aveva perso una mano con un petardo inesploso. Luisa si scusò, salì in camera sua, tolse il tubino nero che si era concessa per quella sera di gala, forse inconsciamente voleva competere con Sara, ma nonostante il vestito, i tacchi ed il trucco, Sara era irraggiungibile, aveva un abito rosso Valentino strepitoso, gioielli di perla e stranamente i lunghi capelli sciolti. Asmait ogni tanto le prendeva una ciocca e ci giocava, lei sorrideva mostrando tutto l’amore del mondo per quella creatura.

       Appena fu pronta scese le scale di corsa per dirigersi in ospedale, a quel punto Giorgio decise di andare con lei per darle una mano.

       Il prof Martinelli lo rassicurò, dicendo che avrebbe fatto riaccompagnare la signora e la piccola a casa.

       Sara non era tranquilla, pregò il marito di non andare se non fosse proprio necessario, avevano la casa piena di scatoloni con tutti gli oggetti di Asmait pronti per il 27 per essere mandati a Milano e non era certa di riuscire a muoversi in perfetta autonomia, anche perché gli operai del trasloco erano andati a casa quando lei era