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Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts


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Elegien und Briefen, die auch vor chauvinistisch anmutenden Invektiven nicht haltmachen, werden dagegen Mensch und Natur in deutschen Landen von Giannantonio Campano, der sich so nach Italien ‚zurückschreibt‘, geradezu perhorresziert (K.S., Tobias Dänzer).

      Mit dem brain drain spätbyzantinischer Gelehrter nach Italien vollzieht die fünfte Sektion unseres Bandes einen erneuten Perspektivenwechsel. Griechische Emigranten machten ‒ je nach Interessenlage der sie Aufnehmenden ‒ wechselhafte Erfahrungen durch, sei es als Vermittler antiker Sprache und Kultur, kritisch beäugte Fremdgläubige und Konvertiten oder bei ihren verzweifelten Versuchen, den Westen zum militärischen Eingreifen gegen die Türken zu bewegen (Christian Gastgeber). Der neuplatonische Philosoph Georgios Gemisthos Plethon, dessen Gebeine 1465 symbolhaft von Mistra nach Rimini überführt wurden, vermochte auch dank seines zum Katholizismus übergetretenen Schülers Kardinal Bessarion wichtige Fundamente für die prisca theologia der Florentiner Akademie zu legen (Monica Centanni). Das Trauma von Flucht und Vertreibung führt im poetischen Werk des sozial gut integrierten Manilius Cabacius Rallo gleichwohl zu emotionalem Selbstausschluss von Liebe, Fest und Dichterruhm (Giuseppe Germano), während sein ebenfalls auf Latein dichtender Freund Michael Marullus, der sein idealisiertes Vaterland selbst gar nicht gekannt hat, die Exilthematik zu raffinierten Konstruktionen griechischer und autobiographischer Identität nutzt und mit philosophischen Reflexionen verbindet (Hélène Casanova-Robin).

      Mit dem Überschwappen des Humanismus über Italiens Grenzen wurde in ‚Zentraleuropa‘ natürlich auch der humanistische Diskurs bezüglich Exklusion und Heimatferne unter veränderten geographischen und politischen Rahmenbedingungen fortgeschrieben, wie unsere sechste Sektion illustriert. Der „deutsche Erzhumanist“ Konrad Celtis gibt der römischen Liebeselegie eine neue Richtung, indem er sich, im Uhrzeigersinn seine landesgeschichtliche Germania illustrata vorbereitend, vier Liebschaften im Osten, Süden, Westen und Norden des Reiches ausmalt (Thomas Gärtner), und der Poetikprofessor Heinrich Bebel kehrt, durch die Pest genötigt, in die bildungsferne Provinz seiner Kindheit zurück, die er vorromantisch ‚bukolisiert‘, paradoxerweise aber auch als ihm fremd gewordenes Exil empfindet (Thomas Baier). Nicht minder eng ist Erasmus das Klosterdasein im heimischen Holland geworden, dem der sich zum alter Hieronymus stilisierende vir trilinguis ein internationales Wanderleben im ständigen Austausch mit Gleichgesinnten vorzieht (Felix Mundt), und Marc-Antoine Muret, vor einer Anklage wegen Homosexualität aus Frankreich nach Italien geflohen, veröffentlicht Jahrzehnte später eine Briefsammlung, die den Umzug als freiwillige peregrinatio academica erscheinen lässt (Laurence Bernard-Pradelle).

      Die abschließende siebte Sektion fungiert als Sammelbecken für ungewöhnliche Fälle von homines migrantes, die ‒ zwischen Zwang und Neigung ‒ die sprichwörtlich gewordenen Weisheiten „Wenn Jemand eine Reise thut / so kann er was erzählen“ (Matthias Claudius 1774) und „Solang Du in dir selber nicht zuhause bist, bist Du nirgendwo zu Haus’“ (Peter Horton 1975) noch einmal neu aktualisieren und in literarische Bahnen lenken. Unter starkem Einfluss von Dante und Vergil lässt Iacopo Sannazaro sein poetisches Alter Ego „Sincero“ aus Liebeskummer nach Arkadien, bukolisches Traumland und letzter Abglanz der Antike, fliehen, um bei der baldigen Heimkehr nach Neapel durch unterirdische Grotten die unerreichbare Geliebte tot vorzufinden (Pasquale Sabbatino); die Entdecker Christoph Columbus und Amerigo Vespucci verfassen dramatische Berichte über ihre Erlebnisse in der neuen Welt, die in lateinischen Übersetzungen durch Antikisierungen und Missverständnisse wirkungsmächtig verfälscht werden (Robert Wallisch); Georgius de Hungaria, als Lateinschüler ins Osmanische Reich verschleppt, wo er u.a. mit dem mystischen Derwisch-Orden in Berührung kommt, kehrt nach zwanzig Jahren in die christliche Welt zurück, wo er als (rekonvertierter) Dominikaner einen Traktat voll Insiderwissen über den Islam veröffentlicht, der gerade in dessen selbsterlebter Scheinattraktivität eine List des Teufels sieht (Reinhold Glei); und Diogo Pires schließlich, ein portugiesischer Sepharde, der sich genötigt sah vor der Inquisition u.a. nach Antwerpen, Ferrara und Ragusa / Dubrovnik zu fliehen, feiert in neulateinischen Gedichten die unwiederbringlich verlorene Heimat mit einer Saudade, die seine jüdisch-lusitanische Doppelidentität verrät (Rafael Moreira).

      I. Ursprünge im Trecento / Le origini nel Trecento

      Exul o peregrinus?

      L’esilio petrarchesco come arte della fuga

      Enrico Fenzi (Genova)

      In passato mi sono occupato in modo piuttosto diffuso del tema dell’esilio nell’opera del Petrarca e ancora mi riconosco in quanto ne ho detto, sí che non posso cominciare se non rimandando a quello studio, piú o meno direttamente presente in questo mio intervento.1 Certo, varî contributi mi erano allora sfuggiti e altri in séguito se ne sono aggiunti, dal momento che il tema dell’esilio partecipa in maniera intima e complessa al fascio dei significati e dei valori dell’intera opera del Petrarca.2 La direzione che oggi prenderò non mira in ogni caso a un’impossibile e fuorviante completezza; semmai, approfittando delle molte cose che ormai si sanno, vorrei cogliere alcune speciali articolazioni di questo, ch’è certamente uno dei nodi sensibili dell’esperienza petrarchesca.

      Alcune cose vanno súbito ripetute. Il Petrarca non ebbe personalmente a patire dell’esilio: esiliato fu invece suo padre mentre egli aveva pochi anni d’età, e certamente questo fatto condizionò la sua vita e in particolare i suoi rapporti con Firenze, ma su un piano affatto diverso. Viaggiò per buona parte d’Italia e d’Europa senza impedimenti, scelse liberamente ove risiedere, fu in grado d’immaginare una serie di luoghi nei quali avrebbe potuto tranquillamente trasferirsi, e soprattutto non ebbe alcun problema a passare per Firenze quando ebbe l’opportunità e la voglia di farlo. Questa brevissima puntualizzazione, tuttavia, non può e non deve chiudere ogni questione, dal momento ch’è pure indubitabile che una indeterminata e addirittura sfuggente dimensione d’esilio che vorremmo meglio definire sembra informarne gli atteggiamenti e le opere. Ma per arrivare al cuore di tale dimensione occorre rompere la crosta delle esplicite dichiarazioni del Petrarca, tutte tese a dimostrare, in sostanza, che l’esilio ‹non esiste›, come risulta, per esempio, dal testo nel quale egli ha condensato il suo punto di vista, il cap. 67, De exilio, del libro II del De remediis, probabilmente scritto sullo scorcio degli anni Cinquanta e non lontano nel tempo da due lettere probabilmente fittizie dirette a un tal ‹Severo Appenninicola› per consolarlo del suo personale esilio, le Fam. 2, 3 e 4.3 La trama del discorso del Petrarca è di perfetta e prevedibile coerenza stoica e senecana in specie: l’esilio esiste solo per chi lo subisce come tale, mentre gli individui di valore non se ne lasciano minimamente turbare e sanno vivere altrettanto bene in qualsiasi parte della terra, in compagnia della loro intatta virtú che sarà proprio l’‹occasione› dell’esilio a portare in piena luce.4 Cardine forte del discorso è quello dell’uomo come ‹cittadino del mondo› e dunque libero di scegliersi la patria che vuole, esemplarmente affidato anche a un appunto che il Petrarca scrive in margine al f. 36v del suo codice dell’Historia Alexandri di Curzio Rufo, il Par. Lat. 5720: «la patria è qualsiasi luogo nel quale l’uomo forte abbia scelto di restare» (patriam esse ubicumque vir fortis sedem sibi elegerit). E ben si capisce come una siffatta capacità e libertà di scelta in determinate circostanze si trasformi nell’obbligo morale di sottrarsi alla complicità con i malvagi mediante l’esilio volontario, che a sua volta contempla la variante particolare della ‹vita solitaria› quale forma tutta speciale e particolarmente eletta di auto-esilio.5

      Il primo passo, come è ovvio, sta nel precisare che si parla di un esilio decretato ingiustamente, sí che il condannato godrà almeno della consolazione di allontanarsi dai malvagi in compagnia della Giustizia, da sempre esiliata dalla terra (sia detto di passaggio, al lettore moderno riesce inevitabile riandare in ogni caso a Dante: qui si potrebbe ben ricordare la canzone Tre donne). A infliggere tale ingiusta condanna sarà dunque un tiranno, il quale caccia i buoni e favorisce i malvagi, oppure un regime di popolo che naturalmente, come sempre è stato, «odia i buoni: un tale tiranno dalle tante teste, infatti, non caccerebbe mai uno che gli assomiglia».6 Ma l’accento del Petrarca non batte tanto su chi esercita il potere e sull’esilio quale atto di condanna giuridicamente caratterizzato, ma su colui che lo subisce e però se ne appropria