Группа авторов

Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts


Скачать книгу

dicembre 1343 il Petrarca aveva acquistato in Parma la casa che già aveva abitato l’anno precedente, ma nel 1344 Azzo da Correggio vendette la città a Obizzo d’Este suscitando la reazione del Visconti che mise la città sotto assedio, determinando con ciò, da una parte e dall’altra, una fitta serie di contrapposte alleanze. Il Petrarca ne fuggí avventurosamente il 23 febbraio 1345,29 riparando a Verona e tornando poi attraverso un lungo giro per la valle dell’Adige, il passo di Resia, il Tirolo e infine la valle del Rodano, a Valchiusa, ove giunse verso la metà di dicembre. E appunto nella primavera del 1346 indirizzò all’amico Philippe de Cabassole, da poco tornato da Napoli con un messaggio al papa da parte della regina Giovanna, la Exul ab Ytalia, invitandolo ad abbandonare ogni impegno in senso lato politico e diplomatico e a condividere con lui la scelta di ritirarsi nella rustica quiete di Valchiusa.30 A monte della lettera stanno dunque due esperienze drammatiche: quella napoletana del Cabassole, che aveva visto, in un crescendo di trame e tradimenti, nel settembre 1345, l’assassinio nel castello d’Aversa del giovane Andrea d’Ungheria, marito della regina Giovanna che del crimine fu complice, e quella parmense del Petrarca medesimo, testimone diretto della continua serie di guerre tra potentati locali che dissennatamente laceravano l’Italia. L’epistola medesima, del resto, lo sottolinea con efficacia:

      Hic tibi Parthenope, dulcis michi reddita Parma,

      quas non insidiae quatiant nec clamor ad arma.31

      Nel suo insieme, la lettera suona come un manifesto di quell’ideologia della fuga e dell’auto-esilio quali condizioni di una vita libera e serena pur se avvolta in una realtà scellerata fatta di tradimenti e delitti, ed ha per noi un motivo di speciale interesse tanto nei versi d’esordio quanto in quelli finali:

      Exul ab Ytalia furiis civilibus actus,

      huc subii partimque volens partimque coactus

      […]

      Hec tibi per silva scripsit, dignissime presul,

      ille tuus, Sorge dicam peregrinus an exul.32

      Exul è, si osservi, la prima e l’ultima parola del componimento, che ne è come rinserrato, cosí come il felice modello di vita valchiusana è rinserrato entro un mondo ostile, ed è di dolente intensità lo stato d’animo di chi ha deciso di fuggire ed è contento d’averlo fatto, ma pure vede benissimo quanto la propria decisione sia frutto d’una invincibile costrizione, e insomma configuri il tragico ed essenziale paradosso secondo il quale, nella vita, le scelte di libertà sono imposte dalla necessità. Cosí, nelle verità dell’animo di chi patisce violenza anche le magniloquenti sentenze della moralità stoica si incrinano, e il poeta cacciato in esilio dall’Italia dalla furia delle guerre civili è tornato a Valchiusa in parte per averlo voluto e in parte perché costretto, sí che alla fine, dopo aver illustrato le delizie del suo rifugio transalpino, deve pur ammettere di non sapere se vi dimorerà e v’invecchierà come uno straniero di passaggio, come peregrinus, oppure, in senso proprio, come esule. Cioè, in un caso o nell’altro, come un senza patria, exul ab Ytalia.

      Capiamo cosí come l’opposizione che abbiamo visto porre nel De remediis, 2, 67, 12, tra l’esilio e la volontaria peregrinatio: I sponte: peregrinatio erit, non exilium, non sia cosí tranquillizzante e definitiva come si vorrebbe, visto che una peregrinatio coatta mantiene qualcosa sia della fuga che dell’esilio, e ci vuole davvero molto poco perché si colori di sfumature che ne piegano il senso in una direzione o nell’altra. Naturalmente, ciò non mette in discussione il valore di quelle formule della magnanimità, che tuttavia si rivelano percorse, sotto pelle, da perturbanti vibrazioni, come a me pare di vedere, per esempio, anche nella prima lettera all’Appenninigena, ove di nuovo il discorso petrarchesco torna a battere sulla distinzione tra peregrinatio ed exilium:

      Occorre che intervenga un elemento di costrizione e di dolore affinché si possa parlare di vero esilio. Se lo ammetti, vedrai allora che dipende da te l’essere un esule o piuttosto un viaggiatore: se te ne sei andato piangente, triste, abbattuto, ti riconoscerai senz’altro come un esule; se invece hai obbedito all’ordine di partire senza dimenticare la tua dignità e senza piegarti, ma con lo stesso atteggiamento sia esteriore che intimo che avevi in patria, allora sei in viaggio, non in esilio.33

      Resta dunque pur vero che per il vir forte e virtuoso ‹l’esilio non esiste›, visto che sembra possibile non viverlo come tale, ma è altrettanto vero che un tale vir non è una creatura in carne e ossa ma un modello ideale verso il quale si può tendere per tentativi, per approssimazioni necessariamente imperfette, mentre questa radicale riduzione alla dimensione esistenziale e soggettiva lascia margine a un principio di mistificazione e persino d’ipocrisia, visto che il ‹male di vivere› non ha alternative possibili e il soggetto che proclama la propria libertà di fuggire è forse piú d’altri inchiodato alle leggi della necessità. Agostino ha definito gli stoici come degli ‹infelici con coraggio›: ecco, forse è proprio questa bella formula a tracciare l’orizzonte entro il quale sta anche la singolare percezione che il Petrarca ha della propria condizione di apolide, teorizzata, difesa, esaltata, eppure sofferta proprio in quanto ha di piú vero e profondo: il disincanto, la fuga. In altre parole, guardando alle cose dal lato di chi lo soffre, la fuga è l’intima verità dell’esilio. E il saggio – dice il Petrarca, – non ha per l’appunto altra scelta oltre questa lucida consapevolezza, e l’esilio per lui non esiste semplicemente perché nient’altro definisce meglio l’essenziale solitudine della condizione umana e della sua in particolare: la patria è come l’abito che indossa e porta con sé nella fuga, che lo segue… Il saggio è tale perché ha imparato a sue spese a essere patria a se stesso. In altri termini, di là da applicazioni piú normali e scontate, si direbbe che il Petrarca secolarizzi la nozione cristiana dell’esilio, riportandola dal cielo alla terra. L’uomo non solo è in esilio rispetto alla sua «vera» patria celeste, ma lo è pure rispetto al mondo, cioè alla sua «vera» patria terrena, e quanto gli è dato di ricostruire attorno a sé non dipende che da lui solo, proprio come il Petrarca ricorda al Cabassole: «Dovresti però cercare da te stesso, con le tue forze – e il cielo ti ha dato alto ingegno – di tirare in secco la fragile barca».34 Il che ci immerge nell’altra sottile dialettica: da una parte sta la massima che, prima di Dante, Brunetto ripiglia da Ovidio: «Toutes terres sont païs au proudome autresi come la mer au poisson», che conferisce alla vita la dimensione ulissiaca di un perpetuo viaggio oltre ogni confine di natura geografica e politica; dall’altra sta l’invito, per restare alla metafora marina, a tirarsene fuori, da quel mare, e a godere di un porto sicuro ove ricreare la propria personale ‹piccola patria›, se è vero che un esilio breve restituirà l’individuo alla propria patria, e uno lungo gliene farà trovare una nuova.35

      A questo punto, il discorso appena comincia, e ha davanti a sé molte strade, che piegano o superano il tema dell’esilio in direzioni particolari, che a tutta prima possono apparire persino vistosamente contraddittorie rispetto a molti degli enunciati visti sin qui. Si pensi, per non dir altro, al patriottismo tutto italico del Petrarca, declinato spesso in chiave anti-francese: sarà pur vero che patria dell’uomo è il mondo intero, come i suoi filosofi gli insegnavano, ma certo il Petrarca non riesce neppure a immaginare che Francia, Spagna, Inghilterra, e insomma l’Europa intera, valgano quanto un’Italia che resta, nonostante tutto, l’unica vera testimone della grandezza di Roma e nella quale egli riconosce l’unica patria possibile, e della quale fonda il mito. Di qui, da questo appassionato riconoscimento al quale, si può ben dire, il Petrarca ha dedicato la vita, entra in lui prepotente e prende vita (è questo un punto ben illustrato da Luca Marcozzi) il tema di un esilio vissuto non nello spazio ma nel tempo. Investendosi della missione di restauratore dell’Antichità, egli dà corpo a «una costellazione allegorica che tematizza il bando delle muse rappresentandolo come esilio della poesia e degli studî dal mondo contemporaneo», e rappresenta se stesso come l’ultimo custode dei valori che il presente rifiuta e addirittura combatte. Il tema della cacciata della poesia e della philosophia dal mondo del suo tempo – parallelo a quello dell’opposizione tra la Roma ideale dell’umanista e la corruzione di Babilonia – finisce per innervare nel profondo anche i Rerum vulgarium fragmenta, «in cui l’immagine della virtú letteralmente sbandita dal presente è una