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Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts


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rifiuta recisamente l’assimilazione senza piú alla lingua materna (quale madre, poi, o quale balia?), al fiorentino.48 Dall’imitazione pedissequa è sempre rifuggito, specie nelle «cose volgari», come da scogli («scopul[i]»: si noti il termine mutuato di nuovo dal linguaggio della navigazione).49 Per il servizio delle muse, esse stesse in esilio (Africa IX),50 l’«irrequieto turista»,51 il «poeta sradicato»,52 pratica la «miscidanza»:53 ecco il paradosso di un’appropriazione che è insieme necessario e voluto distacco, di una ricettività intimamente legata alla sua condizione di esule in lingua.

      Tratto distintivo dei grandi scrittori (Cicerone, Virgilio e successori), d’altronde, di quelli dalle proposte inedite, sono i mutamenti con i quali arricchiscono la lingua54 – coniando parole nuove,55 imbastendo giri inediti,56 cercando ritmi nuovi (che si allontanano dalla tradizione lirica),57 sottoponendo il tutto a uno smanioso processo di ripresa e revisione.

      Ambivalenza, allora, di quest’esilio volontario in lingua, rivendicato come tale, ma con accessi di nostalgia. In realtà, vige una stabile instabilità ricercata del sistema,58 che contempla la possibilità di nostalgici ritorni al fiorentino.59 La cifra che ne consegue, si sa, è il «vario stile», annunciato (ed esibito) nel sonetto proemiale dei Rerum vulgarium fragmenta, con le sue molteplici dimensioni. Ulisse rappresenta sia (in concorrenza con Enea) la forza (anzitutto d’animo, volontà indefessa d’andare avanti, in mezzo alle contrade [in]esplorate, spesso tempestose) sia, contemporaneamente, la fragilità (della condizione umana, in balia delle onde di una pericolosa navigatio).60 L’esperimentazione poetica ne rende conto tramite il «debile stile» mutuato dal flebile carmen dell’Ovidio pontico, il suo stile «incultus»,61 le «lappole et stecchi co la falce adunca» di Rvf 166, 8, fino allo «stile stancho e frale» di 354, 2.

      Se ci rifacciamo poi alla dimensione temporale accennata sopra, l’esilio è tempo transitorio tra due mete: dapprima quelle constituite da nascita e morte. Ma anche, frattalmente, tra la seconda nascita al mondo del 6 aprile 132762 e il termine indeterminato della morte dell’io (che dovrebbe coincidere, finendo l’esilio terrestre, con la fine dell’altro esilio, la lontananza da Laura, essa stessa figurata numerose volte vita natural durante dagli allontanamenti episodici; intervallo di tempo all’interno del quale si staglia il tempo che intercorre tra l’incontro primitivo (come si parla di scena primitiva) e la scomparsa dell’amata (6 aprile 1348).63 Gli allontanamenti episodici cui accennavamo costituiscono altrettanti numerosi exilii, altri intervalli di tempo, in cui il cor, come abbiamo già visto sopra, si pasce «di memoria e di speme» (Rvf 331, 1a strofa). Perfino la modalità del futuro anteriore (o, variante, l’ipotesi della realtà al futuro, ma un futuro remoto) consente di proiettarsi in un tempo avvenire, in realtà mai avvenuto, in cui sarebbe data la possibilità di tornare indietro con il ricordo, verso il passato.64 Il tempo, insomma, non cessa di generare di queste frontiere: e da una data frontiera, ci si allontana, quando all’altra ci si avvicina.65

      Donde anche l’onnipresenza del tempo sospeso, intervallato, del presente durativo: di un’esperienza dell’immobile mobilità, degli stati transitorî, come della memoria e dei suoi grumi di tempo rappreso. Cosí come si sottolinea il carattere durativo e iterativo (l’«incompiuto» per eccellenza, secondo i grammatici) del gerundio tanto amato dal Petrarca.66 I tempi verbali dall’aspetto per l’appunto «incompiuto» essendo inesorabilmente calamitati dal presente (altrettanto «incompiuto») della memoria (della sua durativa atemporalità) all’interno della quale viene ad alloggiarsi. Tra memoria futuri e memoria del passato, sospensione al «punto senza estensione» del presente.67 Ciò, in sintonia con l’osservazione secondo la quale il poeta, sul piano semantico dominante, quello di sostantivi e aggettivi,68 «si è chiuso in un giro di inevitabili oggetti eterni sottratti alla mutabilità della storia».69

      La rammemorazione (attraverso la parola) apre la possibilità di esiliarsi dal presente, segnato indelebilmente dal difetto (di Laura, di Roma: di essere); sostituendolo con il presente di un piano ontologico altro, coincidente con il presente dell’enunciazione, è anch’essa un peregrinare nella lontananza, da un isolotto memoriale a un altro.70 Lacerti mnestici, pezzi di tempo psichico momentaneamente eternati, frammenti immobilizzati, fissati nel momento in cui stanno riaffiorando, ubbidendo alla logica del ritorno degli istanti dilatati.71 Agli antipodi di ogni realismo referenziale, abbiamo a che fare con una temporalità dell’entre-deux tipica delle situazioni d’esilio (anche metaforicamente concepito),72 ch’è spazio aperto per il ricordo di ciò ch’aveva indotto oblío:73 la dialettica già avvistata sul piano propriamente spaziale, in campo geografico, diventa quindi quella dello spazio che si fa tempo, come quando la distanza percorsa dall’aura si fa indice e misura del periodo trascorso nell’assenza.74 E ciò è fonte di piacere,75 che si nutre fin dall’ini­zio del paradosso d’un esilio ch’è un avvicinarsi (Rvf 209, 1–8):

      I dolci colli ov’io lasciai me stesso,

      partendo onde partir già mai non posso,

      mi vanno innanzi et èmmi, ognor adosso

      quel caro peso ch’Amor m’à commesso.

      Meco di me mi meraviglio spesso,

      ch’i’ pur vo sempre, et non son anchor mosso

      dal bel giogo piú volte indarno scosso,

      ma com piú me n’allungo, et piú m’appresso.

      I fragmenta sono inoltre la forma per eccellenza della vita «partita» dai continui esilî.76 Partita, se non spezzettata, anche quand’è in cerca d’una sua unità. Fin dalla giovinezza, il corso dell’esistenza petrarchesca è posto sotto il segno della digressio.77 Non insisteremo sul livello macrostrutturale (la partizione 263 / 264 e il travaglio ad essa connesso, fino alla vigilia della morte),78 se non per ricordare che l’esilio di Laura in cielo (in realtà ritorno alla patria celeste) interviene sullo sfondo dell’esilio perpetuo dell’anima da se stessa, scissa tra i due porti antinomici verso i quali naviga: quello terreno dell’amore per Laura, o meglio della sua immagine memoriale (specie quando «sol memoria m’avanza»: Rvf 331, 10); 79 e quello di lassú raggiunto per l’appunto dall’amata. E che si ripercuote frattalmente nella partizione-frantumazione a tutti i livelli, esistenziali come scrittorî.

      Quella dei fragmenta è in generale lingua dell’allontanamento: notiamo anche la presenza massiccia delle figure (in tutti i sensi) della distanziazione, o disgiunzione (sintattica),80 e della dissociazione,81 della scissione, delle dicotomie e delle antitesi…

      Legherei allora tutto ciò alla crisi della referenzialità già evocata sopra, che poggia sulla particolare struttura del verso petrarchesco nelle sue componenti lessicali, sintattiche, e perfino ritmiche, con la «moltiplicazione delle sostanze e [la] loro frammentazione».82 Come in un processo di allontanamento dagli oggetti del mondo nella loro prepotente corporeità, il loro spessore triviale, e quindi un esiliarsi da esso mondo, a favore del viaggio interiore nei coaguli di coscienza.83

      Il rischio di estenuazione del desiderio per colpa dell’oggetto sfuggente porta d’altronde il Petrarca in senso apparentemente contrario, ad allontanare, esiliare in poesia il detto oggetto al fine d’evitare la sua scomparsa: con perifrasi e traslati («colei che sola a me par donna», «fera bella e cruda» e «candida cerva», e, con lo stigma dell’emblema o dell’allusività, la quasi latina «arbor victorïosa trïumphale», «l’aura gentil», etc.),84 in cui si risolve la logica paradossale di tale desiderio, e della sua espressione.85 Se dobbiamo prendere alla lettera l’idea che ci sia evasività della lingua petrarchesca,86 questa caratteristica si dà anche perché evade da ogni realtà riconducibile all’attualità e all’identità (in senso proprio, letterale: ché l’identico petrarchesco non è mai identico a se stesso, come dimostrano, per stare a un esempio lampante, i rimanti delle sestine).

      E su tutto ciò incombe infine il rischio dell’esilio da se stesso (cfr. per esempio Rvf 29, 36: «Da me son fatti i miei pensier’ diversi»),87 che tra le sue diverse modalità possibili può sfociare nell’afasia, prendere la forma specifica d’un esilio nel mondo del silenzio, almeno per quanto riguarda l’espressione lirico-elegiaca