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Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts


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mondo (l’orbe) che, socraticamente,8 delimita lo spazio di un vivere che è anzitutto, per opzione consapevole, un peregrinare, un exilium-peregrinatio.9

      L’alternativa, come scelta di vita, è chiaramente delineata nella lettera familiare II 3 già citata (la consolatoria di data incerta a destinatario forse fittizio) che fa dell’esilio il suo argomento centrale. Il modo in cui si vive tale situazione dipende da una decisione razionale del soggetto interessato (quando precisamente si fa soggetto della propria storia): o la si patisce passivamente, questa sorte, ed è sofferenza e tristezza, è esilio vero e proprio; o si parte consenziente, trasformando l’esilio in un semplice exire, una peregrinatio per l’appunto, che trasfigura l’esperienza traumatica e dolorosa in occasione di crescita morale e intellettuale.10 Noteremo anche che a questo punto si sfiora, con l’interrogazione sull’etymon (isidoriano, cioè extra solum), un’altra costante delle scelte esistenziali petrarchesche, quella della solitudine, del ritiro solitario che appare cosí una sorta di piccolo esilio volontario.11

      Posto sotto il segno del rifiuto di qualsiasi piccola patria, a favore di orizzonti sempre rinnovati, l’esilio, considerato cosí, è libertà, e la patria di cui sopra, che ci rinserra tra le sue mura, prigione dove sarebbe stolto voler tornare.12 Il cielo è lo stesso dappertutto, e la condizione dell’esule risulta addirittura invidiabile. L’attaccamento alla patria considerata stricto sensu è invece indizio d’animo angusto.13 Bisogna essere capaci di fuggire, anche dagli affetti piú consolidati, per amore della libertà.14 E anche se, in una prospettiva penitenziale, tale fuga e tale libertà in fin dei conti si rivelano senz’altro illusorie.15

      Peregrinus ubique, dunque, e comunque, secondo la nota formula dell’Epystola metrica III 19 a Barbato da Sulmona: peregrinus, cioè nel contempo viaggiatore e straniero. Di tale «stile di vita»16 incarnazione esemplare appare il personaggio di Ulisse, anche per la capacità che offre di distinguersi, confrontandosi all’ingombrante autore del canto XXVI dell’Inferno.17 La peregrinatio ulissea18 sola consente di soddisfare appieno il visendi discendique studium.19 L’animo forte è proprio quello che non rilutta a rimettersi continuamente in moto. Si tratta di un Ulisse il cui viaggio non conosce nessun termine preciso – né casa, né naufragio come punizione di hybris colpevole.20 Non c’è altro termine se non quello sicuro ma imprevedibile della morte naturale. Il perlustrare di continuo contrade nuove è il motore che ci fa andare avanti. E, sul piano che ci interessa ora, quello della scrittura, propendiamo per una comprensione del processo di scrittura nel poeta che, integrando la figura dell’eroe greco, faccia il giusto posto al grande mitologema dell’exul-peregrinus.21 Se vivere è scrivere, tale attività propriamente vitale equivarrà a una vita-odissea nell’oceano delle literæ (in tutti i sensi), a un continuo peregrinare attraverso i segni, provocato dalla compulsione a lasciarsi dietro, esule volontario, tutti i luoghi attraversati. In un modo che resta da definire con maggiore nitidezza.

      Ma precisiamo subito un punto. Il movimento in avanti, di fuga, non esclude il desiderio del ritorno, la nostalgia.22 Consideriamo l’esempio di Valchiusa, il porto terrestre per eccellenza.23 Il riparo provenzale, che consentiva di esiliarsi da Avignone,24 in cerca dell’agognata, ma nella realtà dei fatti sempre temporanea, solitudine, questo havre de paix cosí propizio alla scrittura,25 il Petrarca finirà col lasciarlo, come si sa, definitivamente. Con la decisione di volgere le spalle a Valchiusa, a un luogo che potrebbe offrire ancora diverticula amena,26 non vi potrà tornare che come ospite straniero. Epperò egli non riesce a eliminare un intenso senso di nostalgia, riandandolo col pensiero. Questa la dialettica tra, da una parte, la spinta, avvertita come necessità anche morale, a lasciare i luoghi dove successivamente ha eletto dimora e, d’altra parte, l’impossibilità di cancellare del tutto ciò che è stato, di reprimere definitivamente ogni fermento di doloroso richiamo del nostos. Nostalgia che, in altro modo, coinvolge anche l’Italia – quella che appare nell’opera petrarchesca la funzione-Italia, più che qualche luogo ben preciso, nemmeno la culla degli antenati.27 Quella che si potrebbe definire nostalgia del futuro, un futuro che affonda le radici nel passato remoto, seppellito sotto cumuli di rovine, dell’Antichità classica: questa la logica della renovatio.28 Memoria e speme, ossia una storia amorosa.29

      L’esilio comporta di conseguenza una pregnantissima dimensione temporale.30 Che si radica anche nel disgusto del tempo presente, il che per l’appunto spinge il Petrarca verso l’Antichità – anche s’egli mitiga qui pure il discorso, affermando che l’amore dei suoi cari gli impedisce di desiderare d’esser nato in un’altra età.31 Come per l’invecchiamento, allontanamento da quel che si è stato, esilio da sé che si dispiega progressivamente nel tempo, vi è deplorazione (della caduta, che suscita sgomento) ma nel contempo esultanza della (ri)scoperta del passato seppellito che (ri)affiora… Perpetue oscillazioni tra approdi e nuove partenze, con traduzione sul piano della scrittura dell’opera tutta.32

      Di che tipo di viaggio attraverso i segni si tratta, dunque, limitando ora il discorso ai Rerum vulgarium fragmenta?33 Sul piano tematico, molto si è scritto, a cominciare dalla necessità per il Nostro, nel momento stesso in cui decostruisce il concetto di patria, di fare i conti con tutta una tradizione ancora recente che aveva fatto dell’esilio, liricizzandolo, uno dei cardini dell’ispirazione poetica.34 Ma se l’esilio-peregrinatio, cosí come lo concepisce il Petrarca, è experimentum [sui],35 e dunque occasione d’autoconoscenza, se l’errare ulisseo è esperienza e acquisizione di conoscenza, allora la lingua (poetica) recherà traccia (spie e indizî) anche di quell’atteggiamento fondamentale. Traccia retorica, per cominciare – ma non ci soffermeremo.36 Serve qui però ricordare la teoria petrarchesca dell’imitazione, della mellificazione (o della setificazione), come processo attivo di produzione, rigorosamente sperimentale, ancorato nello studium (in tutti i sensi) di chi ci si dedica: cominciando dal viaggio attraverso i libri, le opere.37 Impegno assiduo, al limite pericoloso: si veda il titolo eloquente della Sen. II 3 ([…] quanti laboris et periculi sit scribere […] Et experientiam matrem artium omnium esse).38 E piú eloquente ancora, la straordinaria pagina della stessa missiva, in cui per illustrare il detto aristotelico experientia artem fecit, si volta repentinamente verso lo spettacolo che ha sotto gli occhi: il porto di Venezia, dove si pratica su grande scala l’arte nautica, prolungando splendidamente e per il bene di tutti gli esordî ancora esitanti, ma già esaltanti, degli Argonautica.39 Qualche verifica, o piú modestamente sondaggio, per mettere l’ipotesi di partenza alla prova.

      Sorge una prima domanda, relativa alla funzione del sostrato tosco-fiorentino della lingua petrarchesca costatato dagli specialisti.40 Non può bastare, ovviamente, una spiegazione fondata sulla lingua d’uso nell’ambiente familiare in cui crebbe il piccolo Francesco – la sua lingua poetica non è riconducibile a quella degli «usi pratici».41 Lingua che comunque non è quella che il Petrarca parlava ad Avignone o a Valchiusa, né in Italia, dove, a parte i soggiorni a Roma o Napoli (lontano da Firenze), il suo tropismo era settentrionale e lo spingeva in terra lombarda o veneta (inter Alpes et Apenninum, l’ipotesi privilegiata come approdo della sua navigatio intorno al 1353, anno della partenza definitiva dalla Francia).42 Ma un simile sostrato (tosco-fiorentino), perché essenzialmente la tradizione poetica cui attinge, pur radicata nell’humus provenzale (Triumphus Cupidinis IV, 40–55), saltando in sostanza i precursori siculi («fur già primi», ora sono «da sezzo», come recitano i vv. 35–36), è tosco-fiorentino («siculo-toscani» compresi, se è vero che «Guitton d’Arezzo» nel corteo dei poeti d’amore segue immediatamente Dante e «Cin da Pistoia»: si veda ibid., vv. 31–33; e anche Rvf 287 [all’esule Sennuccio, per la sua dipartita], vv. 10–11, dove l’ordine è però rovesciato).43 Ed è, sul terreno volgare, proprio Guittone che, insieme con il Dante «petroso» e, piú ancora, quello della Commedia,44 gli consente di mollare, anzi di rompere gli ormeggi che avrebbero potuto tenerlo ancorato alla piccola patria della tradizione lirica sboccata nel cosiddetto Stil novo (dolce, solo dolce, e leggiadro), epigoni compresi (Sennuccio e, per quel pochissimo che se ne può sapere, Franceschino).45 Ma si è premunito contro tale rischio, per l’appunto, coltivando la vocazione alla peregrinatio […].46

      Ciò che di piú saldo resta della ormai contestata