Группа авторов

Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts


Скачать книгу

di svuotare dall’interno e di cancellare la nozione stessa di esilio. In un passo del capitolo De exilio il Petrarca cita prima di tutto una risposta di Socrate che leggeva nelle Tusculanae: «Socrate a uno che gli chiedeva di che paese fosse rispose: ‹Del mondo›, come colui che si riteneva abitante e cittadino del mondo intero».7 Né vi leggeva solo questo, ovviamente, ma anche tutto il capitolo relativo, § 106–109, inteso precisamente a ridimensionare l’opinione che l’esilio sia un gran male, quando invece moltissimi illustri filosofi passarono la vita lontani dal loro paese, e dove infine Cicerone si chiede: «Che considerazione si può avere della qualifica di cittadino in una città dalla quale gli onesti e i sapienti vengono cacciati?», e ancora aggiunge ch’è assai meglio la libertà in esilio che la servitú nel proprio paese attraverso l’esempio di Demarato, fuggito dalla tirannide che opprimeva Corinto e approdato in Italia, a Tarquinia.8 Il nucleo del ragionamento del Petrarca e il suo generale intento dimostrativo non è diverso da quello di Cicerone e, dopo il momentaneo allargamento al motivo della vita stessa come esilio nei confronti della ‹vera› patria celeste, giunge per forza propria a incardinarsi sul concetto espresso molte volte da Seneca e divenuto topico, per esempio anche in Stazio, che a sua volta proclama: «La terra intera è il suolo natale dell’uomo».9

      Il famoso verso ovidiano, Fast. 1, 493, appena sopra ricordato, che per intero suona «Non c’è terra che non sia patria all’uomo forte, come l’acqua per i pesci» (ma il Petrarca, abbiamo visto, ne cita solo la prima parte) era già stato ripreso in un passo famoso da Dante, De vulg. el. 1, 6, 3: «noi che abbiamo per patria il mondo come i pesci hanno l’acqua» (Nos autem, cui mundus est patria velut piscibus equor), ma è già in Brunetto Latini, Tresor 2, 84, 11, ov’è uno scambio di battute a proposito dell’esilio tra Paor e Seurtez (Paura e Sicurezza): «Paura dice: ‹Sarai cacciato in esilio›. Sicurezza risponde: ‹Non mi è interdetta la patria ma un luogo, perché tutto ciò che è sotto il cielo è la mia patria […] Tutte le terre sono patria per il virtuoso, come il mare per il pesce›»,10 implicitamente ripetendo quanto faceva, per esempio, Ugo di San Vittore, che spostava il nucleo del discorso verso le qualità morali dell’individuo capace di una scelta siffatta: «È forte quell’uomo per il quale la patria è dappertutto, ma è perfetto quello per il quale il mondo intero è luogo d’esilio»,11 e che, soprattutto, concentrava in un’unica espressione quella distinzione e gerarchizzazione dei due diversi esilî, quello nei confronti della patria terrena e quello nei confronti della patria celeste, alla quale anche il Petrarca, quasi dilatando dall’interno le parole di Ugo di san Vittore, rende omaggio. Ma il Petrarca, per l’appunto, preferisce restare sulla terra e insiste sul tema dell’esilio volontario, quale gesto capace di capovolgere una situazione nella quale l’ingiustizia sembra prevalere, e di ridare al soggetto dignità e libertà. Perciò esorta: «Vattene di tua volontà: cosí sarà un viaggio, non un esilio», e poco avanti:

      Scacciato dai peggiori, entra a far parte dei migliori, e dimostra con i fatti che non sei tu indegno della patria, ma la patria di te. Sia lei ad accorgersi di quanto ha perduto, e tu convinciti di non aver perso un bel nulla […] Siano loro a soffrire d’essere lasciati soli, mentre tu godrai d’essertene andato in compagnia. Non voltarti indietro; non pensare a tornare; non voler stare con quelli che vogliono che tu te ne vada. Insomma, non metterti nella condizione di sopportare malamente che altri facciano quello che avresti dovuto fare tu.12

      In questa chiave, trovo assai significativo il rimprovero che il Petrarca muove contro Cicerone, che per ostinazione e vanità non ha capito quando sarebbe stato il momento, per dire cosí, di battere sul tempo i nemici e di sottrarsi alla lotta mettendosi in salvo. Nella seconda delle lettere a lui dirette, la Fam. 24, 4 (probabilmente del 1345), gli scrive: «nella tua vita cerco invano solo la fermezza d’animo, la ricerca della quiete ch’è necessaria a chi vuole far professione di filosofo e la fuga dalle guerre civili, quando la libertà è morta e la repubblica già sepolta e compianta».13 Si osservi come la parola-chiave sia qui fuga: la fuga che diventa un obbligo morale per il ‹filosofo› che abbia lucidamente previsto il venir meno delle speranze e la catastrofe che l’aspetta: allora, egli deve sottrarsi ai nemici che lo circondano, tornare a se stesso e fuggire se non vuole restare compromesso nelle follie e nei crimini della storia, e deve riscoprire nella quiete dell’isolamento la sua vocazione allo studio e alla meditazione che fanno di lui un ospite e un testimone, non un attore sul palcoscenico della lotta politica. E ancora non posso trattenermi dal citare un passo dalla Repubblica di Platone, 496c5, che largamente prefigura l’atteggiamento del Petrarca, e illustra quanto sto cercando di dire. Quando la città è irrimediabilmente in rovina,

      colui che fa parte di questi pochi [filosofi] e che ha gustato la dolcezza e la felicità di un simile bene, resosi conto della pazzia dei piú, del fatto che nulla vi sia di sensato nel comportamento di nessun uomo politico e del fatto che non vi sono alleati con cui intrapprendere la difesa della giustizia, senza esporsi alla morte; quando simile a un uomo caduto in mezzo a belve feroci, al furore delle quali egli rifiuta di associarsi, senza per altro essere in grado di tener testa da solo a quell’orda selvaggia, è quindi sicuro di morire prima di aver servito la sua città o i suoi amici, senza profitto né per l’una né per gli altri; dopo aver riflettuto su tutto ciò, egli si astiene dall’agire e non si occupa che dei propri affari, e come un viaggiatore sorpreso dalla tempesta ripara dietro a un muro dal turbine di polvere e di pioggia sollevata dal vento, allo stesso modo, nel vedere gli altri traboccare di ingiustizia, egli si ritiene fortunato di trascorrere l’esistenza quaggiú puro dall’ingiustizia e dall’empietà e di uscire dalla vita nella speranza, con serenità e pace dell’anima.14

      Può darsi che le ultime citazioni appaiano solo indirettamente legate al tema dell’esilio. Non è cosí. Ci danno, invece, l’orizzonte ultimo entro il quale il discorso del Petrarca sull’esilio trova il proprio posto ed esalta i suoi significati. Fissiamo, per questo, alcuni momenti importanti dai quali ripartire.

      1 Seppur per pochi esempî abbiamo visto come il Petrarca presenti l’esilio come una condizione che il soggetto può assumere come una propria scelta sí da anticipare una sentenza di condanna oppure, una volta subíta, a svuotarla di senso. Ora, non c’è dubbio che la parola che piú concretamente si avvicina a un siffatto esilio sia la fuga.

      2 Un tale esilio / fuga è giustificato e addirittura esaltato come un atto di lucida autodeterminazione inteso a ricostruire attorno al soggetto le condizioni della sua possibile realizzazione: in ultima analisi, le ragioni medesime della propria vita e della propria felicità.

      La dimensione rigorosamente individuale nella quale l’esilio precipita non solo indebolisce ma propriamente recide il legame organico e viscerale del soggetto con la propria patria e la propria terra e la propria gente. L’uomo forte e virtuoso, infatti, non se ne fa condizionare: semmai, costretto all’esilio, arriva a intendere come quel legame fosse in realtà un limite ch’egli è perfettamente in grado di superare riconoscendosi come ‹cittadino del mondo›.

      La fuga è una parola estremamente significativa nel Petrarca, sulla quale è necessario fermarsi.15 Non però sul campo metaforico dell’inarrestabile fuga temporis, dentro il quale sta il tema della fuga della giovinezza e della bellezza del corpo,16 ma piuttosto su quello che qui ci riguarda da vicino della fuga vera e propria. All’interno di una tale fuga possiamo azzardare, per amor di schema, due livelli, diversi ma intimamente connessi. Il primo, piú basso, la contempla come espediente per sottrarsi ai fastidî e alle contrarietà quotidiane; l’altro carica la fuga di valori morali e ne fa una scelta di vita che si sublima nell’azione risolutrice attraverso la quale l’individuo esercita al massimo grado la sua libertà: libertà di rifiutare il cumulo delle catene che il mondo gli ha stretto attorno, e di rideterminarsi secondo la propria autenticità. Nell’egloga 8, Divortium, per esempio, sin dalle prime parole (Quo fugis?), è chiaro che proprio questa è la fuga della quale si tratta, capace addirittura di spartire in due la vita intera: il ‹prima› della giovinezza e della maturità asservite, e il ‹dopo› della libertà tardi riacquistata nella stagione che volge ormai alla vecchiaia e alla morte.

      Naturalmente, il livello superiore non esclude, ma integra e nobilita l’inferiore. Un esempio concreto e centrale