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Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts


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che per troppa lunga consuetudine alcuna cosa che in fastidio si convertisse nascer non ne potesse, e perché alcuno la nostra troppo lunga dimoranza gavillar non potesse, e avendo ciascun di noi, la sua giornata, avuta la sua parte dell’onore che in me ancora dimora, giudicherei, quando piacer fosse di voi, che convenevole cosa fosse omai il tornarci là onde ci partimmo.11

      Nulla fa invero pensare che siano cessate le disastrose condizioni che erano state all’origine della decisione di partire e le preoccupazioni or ora menzionate non hanno certo, in quel preciso momento, una ragion d’essere piú fondata che per l’innanzi. La chiave della svolta sarebbe piuttosto da ricercarsi nel fatto che in quel breve arco di tempo s’è compiuto il senso ed è stato conseguito l’obiettivo ideale dell’allontanamento. Si conclude il ciclo che aveva dato a ciascun componente della brigata la possibilità d’essere per una giornata «onorato e ubbidito come maggiore»,12 e con esso prende forma anche un ideale ciclo narrativo, in modo più discreto vengono messi in risalto due aspetti di quel volontario e breve esilio, con un leggero ma significativo spostamento d’accenti rispetto al momento della partenza. L’obiettivo principale della partenza – quello di «dovere alcun diporto pigliare a sostentamento della nostra sanità e della vita, cessando le malinconie e’ dolori e l’angoscie, le quali per la nostra città continuamente […] si veggono»;13 viene confrontato con il modo in cui esso è stato raggiunto:

      il che secondo il mio giudicio noi onestamente abbiam fatto; per ciò che, se io ho saputo ben riguardare, quantunque liete novelle e forse attrattive a concupiscenzia dette ci sieno, e del continuo mangiato e bevuto bene e sonato e cantato (cose tutte da incitare le deboli menti a cose meno oneste), niuno atto, niuna parola, niuna cosa né dalla vostra parte né dalla nostra ci ho conosciuta da biasimare; continua onestà, continua concordia, continua fraternal dimestichezza mi ci è paruta vedere e sentire.14

      Ciò che si riferiva alla realtà fisica e corporea si trova ora in secondo piano, mentre si evidenzia l’aspetto morale e quella che potrebbe definirsi come l’«arte del vivere». Lontano dalle frenetiche preoccupazioni della vita cittadina, e consapevoli del fatto che «le cose che sono senza modo non possono lungamente durare»,15 i protagonisti hanno saputo creare durante quel breve periodo un ambiente cortese e raffinato, alto e nobile, sereno e dedito a onesti piaceri.

      Trovandosi per forza di cose in una situazione del tutto eccezionale, liberi loro malgrado dalle preoccupazioni della routine quotidiana, avendo a disposizione tutto il loro tempo e giornate intere, i protagonisti della cornice creano un rituale in cui uno spazio significativo viene dedicato al piacere, sia esso rappresentato dal «continuo mangiare e bere bene» o da «liete novelle» e risate, oppure da passeggiate tra paesaggi incantevoli e, ancora, da balli e canti. La narrazione che ci offre il Boccaccio mette in risalto soprattutto l’importanza del dialogo.

      Infatti, al lettore del Decameron, anche poco attento, non possono sfuggire le aperture al dialogo segnalate in varî luoghi del testo. L’opera si presenta già nel titolo come relazione di una serie d’incontri e di conversazioni: «Comincia il libro […] nel quale si contengono cento novelle, in diece dí dette da sette donne e da tre giovani uomini».16 Sin dall’inizio della narrazione il Boccaccio assume apertamente un atteggiamento dialogico, intendendo istituire rapporti diretti con il pubblico da lui privilegiato, le donne, rivolgendosi direttamente a esse: «Quantunque volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente tutte siete pietose[…]».17 Alla partecipazione al dialogo e al dibattito attorno al libro invitano palesemente le stesse, impegnate pagine dell’introduzione alla Quarta giornata e della Conclusione dell’autore, ove si richiamano alla memoria le voci, anche e soprattutto quelle ostili, che già corrono e che dialogano con il Boccaccio narratore, e ove si ribadisce l’importanza della benevolenza e dell’appoggio che l’autore attende dai proprî interlocutori.

      Il dialogo non soltanto caratterizza la relazione che l’autore del Decameron intende istituire con i lettori, ma al tempo stesso funziona come parte integrante dei dibattiti che si svolgono tra la lieta brigata. A metterlo in rilievo serve l’accuratissima forma da tutti rigorosamente rispettata. Il dialogare è regolato da una precisa etichetta di norme e di civiltà. Gli incontri hanno luogo sempre alla stessa ora e nello stesso luogo, si svolgono secondo procedure formalizzate e sempre uguali. La cura costante della forma fa sí che nessuno manchi di rispetto al re o alla regina della giornata, nessuno trasgredisca l’ordine nel parlare, nessuno proponga temi estranei ai limiti prestabiliti, nessuno dimostri impazienza nell’ascoltare o, peggio, interrompa l’oratore. Il senso di un tale dialogo consiste fra l’altro nell’opporsi con imperturbato ordine alla disgregazione della civiltà dalla quale i narratori fuggono. L’unico disturbo viene provocato dall’irruzione, all’inizio della Sesta giornata, dei due rozzi servitori Tindaro e Licisca, respinti non solo con risa carnevalesche, fragorose ma chiaramente impregnate di un senso di superiorità, ma altresí dalla ferma decisione della regina: «mentre la Licisca parlava, facevan le donne sí gran risa, che tutti i denti si sarebbero loro potuti trarre […]. […] la reina con un mal viso le ‘mpose silenzio e comandolle che piú parola né romor facesse».18 Al dialogo possono partecipare soltanto coloro che rispettano degli alti criterî morali. Perciò, tra i rischi connessi al prorogare oltre misura l’esilio, Panfilo cita anche il seguente: «Senza che, se voi ben riguardate, la nostra brigata, già da piú altre saputa da torno, per maniera potrebbe multiplicare che ogni nostra consolazion ci torrebbe».19

      L’esilio serve dunque, principalmente, in quanto prova di carattere ed esperienza che arricchisce chi la vive soprattutto grazie a una «civil conversazione» ante litteram. L’essersi sottratti alle costrizioni del quotidiano permette un dialogo piú libero, uno scambio d’idee piú aperto e piú innovativo, nonostante il rispetto delle forme. Il ritorno alla normalità avviene in una condizione morale, fisica e spirituale migliore di quella iniziale. Di nuovo, è un percorso in qualche misura analogo a quello che sono chiamati a compiere i lettori del Decameron nell’auspicio dell’autore:

      Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a’ camminanti una montagna aspra e erta, presso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia reposto, il quale tanto piú viene lor piacevole quanto maggiore è stata del salire e dello smontare la gravezza. E sí come la estremità della allegrezza il dolore occupa, cosí le miserie da sopravegnente letizia sono terminate.20

      Il gran motivo della cornice riecheggia poi – e la cosa sembra piuttosto scontata – in alcune novelle della raccolta. Sebbene a volte non sembri chiara la linea di demarcazione tra esilio ed emigrazione, il senso dell’allontanamento dalla patria risulta piuttosto evidente, a cominciare dalla novella di apertura (Dec. I, 1), raccontata «acciò che, quella udita, la nostra speranza in lui [sc. Dio], sí come in cosa impermutabile, si fermi e sempre sia da noi il suo nome lodato».21 I suoi protagonisti sono italiani residenti da tempo in Francia, accomunati da un certo senso di solidarietà di fronte ad un ambiente «forestiero», anche se lontanissimi gli uni dagli altri per il loro status sociale e per le motivazioni che li hanno spinti a vivere all’estero: per ser Musciatto Franzesi, «di richissimo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto»,22 si trattava d’una brillante carriera politica; per i fratelli fiorentini in Borgogna, «li quali quivi a usura prestavano»,23 della possibilità di svolgere una sospetta ma lucrativa attività economica; per ser Ciappelletto, «il piggiore uomo che mai nascesse»,24 con ogni probabilità della fuga da qualche persecuzione penale, da una esplicita condanna o magari da una vendetta privata. Per tutti, l’allontanamento dalla patria offriva la possibilità di portare alla perfezione il proprio carattere: di grand’uomo d’affari, spregiudicato ed efficace, o di minuto ma spietato sfruttatore o, ancora, di perfetto depravato. Tra emigrazione ed esilio si definisce altresí lo status dei tre fratelli fiorentini (Dec. II, 3), i quali decidono di lasciare la loro città natale per non far vedere la povertà in cui erano caduti per lo smisurato e dissennato loro spendere. Anche per loro il vivere lontano dalla patria è una prova di carattere che riescono a superare, una chance che non si lasciano sfuggire di rifarsi dell’avvilimento di cui sono essi stessi colpevoli.

      Il modo d’intendere la funzione dell’esilio diventa piú palese nel confronto di altre due varianti del motivo, l’una ambientata nel mondo aristocratico,