Группа авторов

Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts


Скачать книгу

dunque, l’esilio è una scelta, che si direbbe inevitabile e ovvia, operata dai giusti di fronte a una corruzione che scatena l’ira di Dio, e contro la quale non si scorgono rimedî diversi. Per fuggire il peccato ci si deve sottoporre a un periodo di prova e di perfezionamento. Se i pragmatici e concreti obiettivi sono per l’autore consoni all’attuale situazione politica della patria, la fase dell’esilio li nobilita e li sublima.

      Non stupisce il fatto che in un’opera di cosí evidente carattere politico il motivo dell’esilio o quello del bando ritornino in numerose novelle. Nel mondo narrativo sercambiano l’esilio di un protagonista e di un gruppo di persone consente d’individuare e di caratterizzare un determinato momento storico, quasi a confermare il ruolo emblematico che il fenomeno ebbe nella realtà politica toscana dell’epoca (cfr. Nov. CV, 5: «nella nostra città, molti cittadini lucchesi per male stato di Lucca si partirono», CXXVIIII, 5: «essendo in Vinegia per lo male stato di Lucca andati a stare»), oppure serve a descrivere piú generalmente la condizione politica e sociale (cfr. Nov. CXXXVI e CXXXVII). L’esilio sembra quasi una condizione «abituale» nell’instabile mondo dei potenti (cfr. Nov. CXXXVIII, 9: «i Rossi di Parma furono cacciati»). E il tema ritorna addirittura in una delle canzoni (Nov. CXXXVII, 3) :

      chi caccia e chi è cacciato

      e tel che piglia quel ch’un altro leva

      cosí non mai han tregua

      i corpi governati di fortuna.

      Ben nota all’autore sembra la precaria condizione dell’esiliato (cfr. Nov. LXXI, 6: «Dante di Firenze non potendo stare in Firenze, né in terra dove la Chiesa potesse, si riducea il preditto Dante alcuna volta con quelli della Scala, et alcuna volta al Signore di Mantova, e tutto il piú al duge di Lucca, cioè con messere Castruccio Castracani»; CXVIII, 9: «stando i preditti […] oggi in un luogo domane in uno altro come li sbanditi fanno»), mentre in una serie di novelle viene messa in risalto la conflittualità provocata dal ritorno degli esiliati in patria (cfr. Nov. CXXXVI, CXXXVII, CXXXVIIII e CXLV).37 L’esilio emerge anche nei racconti di tipo fiabesco, ove dà luogo a una serie d’avventure miracolose (cfr. Nov. LXXXXVI) o porta a una esemplare presa di coscienza, quando l’umiliazione subita insegna al figlio dell’imperatore il vero valore del proprio ruolo sociale (cfr. Nov. LXV).

      Il bando non è tuttavia solo l’«appannaggio» dei potenti: è una frequentissima forma di punizione per varî tipi di trasgressione o di reati comuni (cfr. Nov. LXXXXII, LXXXXIIII e LXXXXVIIII) applicata anche a persone di modesta condizione sociale. Sembra che per il Sercambi si tratti d’una soluzione incompiuta o lasciata a metà: il trasgressore non può piú far male ed è quindi «neutralizzato», ma ciò non equivale alla giustizia, soprattutto se il malfattore può nonostante tutto godersi ugualmente i frutti dei proprî reati (cfr. Nov. LXXXXII). Spesse volte il bandito commette nuovi crimini che portano all’unica, per il narratore, giusta soluzione finale ch’è la pena capitale (cfr. Nov. CXV, 57: «li fé tagliare la testa come la ragion vuole»; e CXXXIII, 20: «con belli et onesti modi la donna morire fé»).

      Si potrebbe sostenere che nella raccolta novellistica del Sercambi il motivo dell’esilio / allontanamento focalizzi due aspetti dell’intero suo progetto narrativo. Da una parte si tratta d’una forte carica idealizzante e moralizzante: l’abbandono dello spazio domestico può equivalere all’abbandono dei vizî quotidiani e di routine, al rinnovamento spirituale e alla ricerca d’una vita nuova e migliore. Dall’altra, invece, l’esilio è intrinseco elemento della realtà sociale e soprattutto politica che va affrontato con mezzi pragmatici ed efficaci. Si tratta di fenomeni e situazioni fondamentalmente diversi e che vanno valutati, e soprattutto gestiti, con criterî diversi.38

      La terza raccolta che vorrei ricordare in questa sede è Il Pecorone di ser Giovanni Fiorentino, opera rimasta finora sostanzialmente anonima in quanto nessun tentativo d’individuarne l’autore storico ha portato a risultati soddisfacenti.39 In proposito, una delle piste da seguire sarebbe, secondo taluni esegeti, per l’appunto legata al motivo dell’esilio, che nel Proemio della raccolta appare in modo tale da meritare che vi ci si soffermi. Come nei casi precedenti, anche in questo il narratore si autopresenta:

      […] ritrovandomi io a Doàdola, isfolgorato e cacciato dalla fortuna, come per lo presente libro leggendo nello fotturo potrete udire, e avendo inventiva e caggione da potere dire, cominciai questo negli anni di Cristo MCCCLXXVIII, essendo eletto per vero e sommo apostolico della divina grazia papa Urbano sesto, nostro italiano; regnando lo ingesuato Carlo quarto, per la Dio grazia re di Buemmia, e imperadore e re de’ Romani.40

      La breve presentazione è ricca di puntuali riferimenti politici: nell’inquieto anno 1378 a Firenze si ricorreva piú frequentemente del solito a condanne al bando che dovevano colpire collettivamente, a ondate, gli avversari politici.41 Nel definire o caratterizzare in modo succinto e adeguato quel momento storico, l’autore si serve spontaneamente dei riferimenti alle massime autorità politiche, a lui ben note. Anche la scelta di Dovadola per rifugio sembra alludere a condizionamenti di carattere politico: si trattava infatti d’un feudo dei conti Guidi, casata ben presente nelle vicende politiche toscane e fiorentine. La problematica politica ritornerà poi massicciamente nelle novelle, piú della metà delle quali riprende brani interi della Cronaca del Villani, che viene introdotta nel discorso come «uno morale e alto ragionamento».42 Tutto ciò non permette tuttavia di precisare meglio le condizioni dell’esilio del narratore, e la lettura delle novelle «del presente libro» risulta da questo punto di vista deludente. La questione rimane sospesa e perciò, come tante altre del Pecorone, ambigua fino alla fine. Le allusioni politiche s’intrecciano tuttavia ad altre di ben diversa natura. L’autore intraprende il proprio compito apparentemente sulla scia del Boccaccio:

      per dare alcuna stilla di refriggero e di consolazione a chi sente nella mente quello che nel passato tempo ho già sentito io, mi muove zelo di caritevole amore a principiare questo libro, nel quale, per la grazia di Dio e della sua santissima Madre, tratteremo di uno frate e d’una sorore, i quali furono profondatissimamente innamorati l’uno dell’altro, come per lo presente potrete udire; e sepponsi sí saviamente mantenere, e si seppon portare il giogo dello isfavillante amore, che a me dierono materia di seguire il presente libro.43

      Il giovane uomo menzionato dal narratore non è poi altro che l’autore stesso, come si può facilmente desumere dal nome, Lauretto, che n’è un semplice anagramma. Pur ammettendo che il suo esilio avesse motivazioni politiche, va rilevato ch’esse non sembrano avergli causato dolori sufficienti a raccontarne piú estesamente le miserie. Il soggiorno a Dovadola, nei pressi di Forlí, luogo delle antiche passioni dell’autore, l’ozio forzato di questi e il molto tempo libero a sua disposizione, sembrano tuttavia aver ben ravvivato in lui la memoria delle cose passate: la raccolta di novelle sarebbe in un certo senso un by-product, un imprevisto effetto dell’esilio. Notiamo infine che, contrariamente alle raccolte citate in precedenza, nel Pecorone non si accenna al ritorno in patria e, in questo senso, non v’è alcun lieto fine. Non è infatti quello l’obiettivo del narratore, che raggiunge il proprio scopo nel momento stesso in cui ricorda la felicità passata:

      e’ detti due amanti con singularissimo diletto piú e piú volte s’abbracciorono insieme con molte amorose e dolcissime parole […]. E cosí il detto frate Oretto ebbe dalla Saturnina quella consolazione e quel diletto che onestamente si può avere. E cosí puoson fine a’ lor disiati e dilettevoli ragionamenti, e ciascuno si partí con buona ventura.44

      La funzione dell’esilio sembra interamente esaurirsi nell’occasione materiale e nello stimolo psicologico da esso offerti per tornare con la mente ai momenti felici del passato. «Ricordarsi i tempi felici nella miseria» non è motivo di dolore, ma induce riflessione, pace e consolazione. Un sapiente atteggiamento mentale permette di trovare anche nell’esclusione forzata dal proprio ambiente abituale – nella condizione di uomo «isfolgorato e cacciato dalla fortuna» – un tempo di serena tregua dalle stressanti battaglie quotidiane. Appare coerente con quest’impostazione il fatto che il motivo dell’esilio compaia alquanto sporadicamente nelle novelle, sia quelle «familiari» della prima parte della raccolta che quelle “storiche” desunte dalla