Johann Widmer

Le Veglie Di Giovanni


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indispettire l’elettorato giacché la situazione politica del Paese sarebbe già abbastanza confusa e richiederebbe una acuta sensibilità.

      Brontolando, gli sconfitti si arrendevano.

      Come da tradizione il presidente del Comitato Organizzativo venne designato dal presidente del partito.

      E guarda un po’, costui nominava capo un certo Ferro, un giovane, con la misera scusa che era il suo gruppo ad aver ottenuto la maggioranza in Commissione, e pertanto il diritto alla presidenza.

      Nonostante Ferro fosse un tipo furbo, una specie di eroe di paese - attaccante di successo nella squadra locale di calcio - i vecchi non intendevano ingoiare il rospo.

      Ponevano un ultimatum: o veniva eletto Acciaio, il versatile pluriennale capo o avrebbero fondato una nuova Associazione.

      Fu così che da un momento all’altro si trovarono di fronte il nobile circolo dei cacciatori Senior - patrioti valorosi - contro lo Junior club degli immaturi seguaci di Sant’Uberto.

      Accesi dibattiti e scaramucce venivano pacificati dal Sindaco nei giorni successivi. Dopo aver accettato i consigli del segretario del partito, stabiliva per Decreto di dividere il territorio comunale in due zone di caccia mettendole a disposizione alle due Associazioni.

      La linea di demarcazione attraversava la zona boscosa nella parte meridionale del Comune, là dove si nascondeva la maggior parte dei cinghiali. Appena terminata la delimitazione, di notte, venivano mandate delle pattuglie di ricognizione per esplorare il passo della selvaggina e individuare le pozze di fango. Oltretutto venivano inviati anche dei volontari nella zona degli avversari, dove sparare all’impazzata per notti intere, in modo da scacciare i cinghiali dirigendoli – possibilmente – nel proprio territorio.

      Acciaio minacciava i suoi avversari con botte, espulsione dal partito e denuncia ai carabinieri, con l’accusa di bracconaggio prima dell’apertura ufficiale della caccia. Due giorni dopo però, suo cugino Ottorino veniva acciuffato nella zona boschiva avversaria. Con il fucile spezzato e il fondoschiena sanguinante tornava in paese dopo la sua fallimentare spedizione.

      Il vertice del partito era infuriato per l’offesa recata ad un consigliere comunale in carica, offendendo in tal modo i Diritti Umani. Questo era un oltraggio ad un pubblico ufficiale, un affronto alle istituzioni statali e un’offesa al patriottismo partigiano, visto che il malconcio era un portatore di varie medaglie al merito. Bisognava assolutamente fare qualcosa contro la spocchiosa masnada di gioventù deviata, reazionaria e neoborghese. Bisognava assolutamente fermare i malandrini, impedire a questi Hooligans una volta per tutta il loro fare criminale.

      La metà del paese era indignata.

      L’altra metà ormai scoppiava di gioia per la disgrazia altrui.

      Purtroppo, si venne a sapere ben poco del seguente incidente, poiché il medico del paese, avendo estratto i pallini di piombo dalla schiena di uno sfortunato giovane appartenente al gruppo di Ferro, aveva osservato il segreto professionale.

      Alcune insignificanti dispute riempirono il lasso di tempo prima del grande giorno nel quale, finalmente, lo spettacolo poteva avere inizio.

      Il giorno X cadeva in un giorno feriale. Il sindacato decideva lo sciopero generale, in modo da permettere al popolo dei lavoratori di poter partecipare alla grande battuta di caccia.

      Molto prima del sorgere del sole, due interminabili colonne di automobili si allontanavano dal paese, e sul fare del giorno i battitori, i padroni dei cani e i cacciatori prendevano posto nelle rispettive postazioni.

      I due capi erano molto nervosi poiché l’esito della giornata andava ben oltre l’onore del cacciatore. Si trattava della questione del Potere.

      Il partito degli sconfitti avrebbe dovuto, sicuramente, fare i conti con la derisione.

      Nel caso che tutto dovesse versare al peggio, Ferro rifletteva su una sua eventuale emigrazione. Avrebbe forse potuto trovare un posto nel Milan o cercare lavoro in Germania o in Belgio. Per conto suo, Acciaio sapeva di dover vincere questa battaglia. Nel caso contrario, il suo prestigio nel paese sarebbe sceso a zero sotterrando la sua speranza di sfidare l’attuale sindaco alle prossime elezioni. Qualcuno gli avevo già fatto certe promesse e allusioni, che sarebbero ovviamente cadute nel nulla.

      Ferro aveva equipaggiato la sua truppa con walkie-talkie e stabilito il suo quartier generale all’interno del suo fuoristrada. Con una carta sulle ginocchia e il walkie-talkie nella mano guidava la battaglia dei suoi fedeli. Acciaio aveva preso posizione su una collina sovrastante il territorio, insieme ad una manciata di fedeli che poteva utilizzare come corrieri e sparare il colpo con il quale aprire la battuta di caccia.

      I cani perlustravano la boscaglia, i battitori iniziavano ad urlare, a chiamare e a sparare per spingere i cinghiali davanti ai fucili dei cacciatori.

      Per i cinghiali era arrivato il giorno del giudizio. Si era scatenato l’inferno.

      Per i non addetti, come minimo, poteva sembrare la battaglia di Montecassino o di Verdun, poiché, sentite dal paese non si potevano distinguere le schioppettate delle due fazioni. I battitori gridavano e – presi dall’entusiasmo – sparavano colpi per aria, i cacciatori sparavano a tutto quello che si muoveva davanti ai loro fucili. I cani abbaiavano e ululavano fino all’isteria. Era una vera, meravigliosa battuta di caccia al cinghiale.

      Quando non c’era più niente a cui sparare, il capo suonava la tromba, segnale di avviso per la fine della battuta di caccia.

      Era arrivato il momento di contare, di fare il bilancio.

      Ciascuno dei due gruppi aveva abbattuto all’incirca due dozzine di cinghiali, di diverse grandezze.

      Che ci fossero andati di mezzo anche alcuni cani non stupiva nessuno in modo particolare, faceva parte del gioco. Ma quando, dietro un cespuglio, fu trovato – poco prima di andare via – il cadavere del segretario del partito crivellato di colpi, a qualche cacciatore tremarono le gambe.

      La Pensione

      Dai nostri parti tutti lo conoscono, il Beppino che abita nella piccola casetta bianca sotto la cava di pietra. Anni fa, aveva circa 35 anni, lavorava come tagliapietre nella cava. Un lavoro veramente pesante, faticoso e maledettamente insano.

      Al pesante lavoro poi si aggiunge la polvere, e come voi ben sapete, la paura della silicosi, che irrigidisce i polmoni.

      Quando Beppino tornava la sera dal suo lavoraccio dava ancora da mangiare alle sue due caprette, buttava una manciata di grano alle galline e preparava cena cuocendo un denso minestrone.

      Dopo faceva ancora dei lavoretti nel suo orto dove c’era sempre qualcosa da fare e all’imbrunire si coricava.

      Non è vita questa, soltanto lavorare, mangiare, dormire, e poi... tutto da solo.

      Non si vedeva mai in paese, o magari soltanto una volta all’anno all’ARCI, a bere un bicchiere di vino, senza dire tante parole, poi ritornava nella sua casetta.

      Una vita desolante e monotona che avrebbe ammazzato qualsiasi altra persona, ma sembrava che a lui piacesse, una volta disse persino far parte delle persone più felici della terra.

      Eh sì, cosa ne sapeva Beppino della felicità e quanto poco conosceva di questo mondo il sempliciotto.

      Doveva essere stato nei primi anni Settanta, durante una di quelle estati piovose, quando un giorno sentì dei forti dolori alla gamba sinistra. Un semplice colpo della strega, ma chi l’ha subito sa bene quanto sia doloroso. É l’inferno puro.

      Ad ogni passo si sentiva trafitto come da coltelli infuocati e durante il suo lavoro soffriva terribilmente. Ma lui resisteva, stringeva i denti e la sera si faceva degli impacchi rinfrescanti.

      Finalmente i dolori sparivano ma poi si gonfiavano i suoi piedi e faticava per mettersi le scarpe. Il giorno seguente anche le sue ginocchia si erano gonfiate.

      Un collega di lavoro gli consigliava di consultare urgentemente un medico per farsi prescrivere più medicine possibili ed