Olga Kvirkveliya

Una promessa rubata


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contemporaneamente: trova sia la mucca sia il monastero.

      Una volta messo il neonato sotto le mammelle della mucca, don Guevara comincia a pensare come capire da che parte sta l’abate. Il monastero è maschile: è chiaro perché le mura sono fortificate e il portone ben chiuso. Quest’ultimo è un buon segno: se l’abate sostenesse l’usurpatore, il portone sarebbe spalancato in attesa dei vincitori che porterebbero le offerte di ringraziamento per la protezione celeste. Siccome il portone è chiuso significa che il monastero ha motivo di aver paura. Ma non si può rischiare, bisogna osservare ancora.

      Il bimbo si è rimpinzato e adesso sbuffa contento. Improvvisamente il cavaliere ricorda con terrore che i bambini mangiano molto spesso, quasi senza interruzione! Cosa fare? Lui non può correre dalla mucca ogni ora! E poi, per la notte la mandria sarà portata nella stalla. Toccherà rubare la “nutrice”. Per dire la verità, anche prima Sancho era costretto a “impossessarsi” del bestiame che passava o correva oltre – di una gallina o addirittura di una pecora, ma di una mucca!!! Non si può fare altro. Solo che non sarà possibile viaggiare sulla strada apertamente: un uomo a cavallo, con un neonato sulla braccia, che porta dietro di sé una mucca… potrebbe richiamare una folla di curiosi.

      Costruisce un rifugio con i cespugli tagliati presso un ruscello sotto le mura del monastero; da lì sarà possibile osservare il portone senza essere visto. Ora ha bisogno di riposare un po’, la giornata è stata faticosa: la battaglia, la ricerca di un cavallo e di un equipaggiamento, poi anche l’avventura con il bimbo… Si è appena sdraiato sull’erba quando il bimbo ricomincia a piagnucolare e tutto si ripete come in un circolo chiuso: nutrire, lavare, portare il cavallo e la mucca in altro posto, combinare per sé una sbobba dal “pascolame”, mangiare, di nuovo nutrire il bimbo… “Che bello non essere donna!”, pensò, “E tutto questo senza fare bucato e pulizia!”

      Intorno al monastero non succede nulla per tutto il giorno: nessuno esce, nessuno entra. Come se tutti fossero morti! A crepuscolo avanzato don Guevara percepisce qualche movimento. Vaghe ombre, una o due alla volta, penetrano lungo le mura verso il portone, bussano – quasi grattano; il portone si apre inghiottendole senza traccia. Alcune ombre sembrano zoppicare, altre strascicano a malapena i piedi. “I nostri”, capisce Sancho.

      Lega il cavallo e la mucca, stringe a sé il bimbo e si avvicina al portone. Quando questo si apre e lui entra, è circondato da uomini armati che, vedendo il neonato, subito si rilassano. Guevara chiede di essere portato dall’abate.

      3

      Don Guevara racconta tutto all’abate. Questi lo ascolta in silenzio; la sua faccia non mostra né sorpresa né diffidenza. Quando il cavaliere finisce il suo discorso, l’abate lo incalza:

      – ‐ E tu ti aspetti che io ti creda?

      – ‐ Che motivo avrei di mentire? Non sono una fanciulla che ha peccato sul fienile!

      – ‐ Questo è giusto, però i tempi sono incerti; chissà quali ragioni potresti avere. Dammi qualche prova!

      Don Guevara sospira con rammarico, infila la mano in tasca, tira fuori l’anello e lo consegna all’abate. Questi osserva attentamente il gioiello, poi si rivolge di nuovo al giovane.

      – ‐ Sì, è quello. Non ci si può sbagliare: i due profili, del re e della regina, e le iniziali.

      Però… tu sei comunque un ladro!

      – ‐ Non tocchiamo questo argomento adesso! Non sono venuto per la confessione!

      – ‐ Io non parlo dell’anello. Hai rubato il neonato al suo destino, si può dire a Dio!

      – ‐ E non mi dispiace!

      – ‐ Cosa vuoi da me?

      – ‐ Prendete il bambino! Dove andrei con lui? Adesso mi tocca cercare un nuovo padrone.

      E poi non va bene portare il figlio del re tra il petto e la camicia.

      – ‐ È facile dire “prendetelo”… Se qui diamo asilo, sicuramente non lo diamo ai bambini. Credo che tu l’abbia capito! E poi, quale figlio del re è lui adesso?! Dagli un nome e portalo dalle suore, ti darò una lettera per la badessa. Lo cresceranno come un bambino qualsiasi.

      – ‐ E questo sarebbe un bambino qualsiasi?! E no! Lui è l’unico e legittimo erede al trono!

      Ho giurato fedeltà a suo padre!

      Al clamore delle voci il bimbo si sveglia e comincia a piagnucolare.

      – ‐ Forse ha fame di nuovo. Se è così, noi andiamo: ho legato nella macchia una mucca; darò da mangiare al piccolo.

      – ‐ Aspetta, troveremo noi del latte! Alloggiate nella cella. Cercherò di sapere qualcosa di più, poi deciderò.

      Dopo tre giorni l’abate chiamò il cavaliere. Don Guevara entrò e chiuse la porta senza far rumore per non svegliare il bambino che dormiva beatamente tra le sue braccia.

      – ‐ Pare che tu non abbia mentito. Dicono che hanno trovato la regina con la pancia tagliata e che il figliolo è sparito. Adesso lo stanno cercando. Se lo troveranno saranno guai.

      Tacciono. Poi l’abate rompe il silenzio:

      – ‐ Certamente ci sono uomini pronti a dare la vita per questo bambino, ma sono pochi soppravvissuti. Alcuni sono feriti, altri mutilati… Ecco, resta qui con noi, poi vedremo.

      – ‐ Io devo restare con lui?! Devo cercare un nuovo padrone, ho solo un cavallo, che per giunta non è mio!

      – ‐ Non preocupparti per questo, vi sosterremo con l’aiuto di Dio.

      – ‐ Padre, ma che balia posso essere io?! Oltretutto non ho vocazione alcuna per il monachesimo.

      – ‐ Sei balia come ognuno di noi, siamo in un monastero maschile, come avrai certamente notato! Alla vita monastica non ti costringerò. Sarai un collaboratore, potrai uscire liberatamente e pregare quando la tua anima lo vorrà. Piuttosto, che lavoro potrei farti fare? Forse in biblioteca; credo tu sia alfabeta!

      – ‐ Sì. Nella mia vita passata ho avuto insegnanti e maestri.

      – ‐ Vedi che fortuna! Chi meglio di te può educare il figlio del re? I nostri frati sono persone semplici, non solo non sanno leggere, ma addirittura contano con le dita fino a cinque e poi sbagliano. Sono capaci solo di curare i feriti e difendere il monastero. Visto che abbiamo un ricco archivio dei tempi passati in pace, sarebbe bene metterlo in ordine.

      – ‐ Ecco come andrà a finire… Sono un buon militare ma, a dire il vero, non è conveniente per un uomo vivere come un lupo solitario e rischiare la vita per gli interessi degli altri. Noi mercenari viviamo così: talvolta serviamo lo stesso padrone, facciamo quasi amicizia tra di noi, ma poi può succedere di combatterci perché i nostri nuovi padroni pretendono lo stesso villaggio. Di conseguenza cerchiamo di non coltivare veri rapporti di amicizia… Ma io sognavo di avere moglie e figli, una casa…

      – ‐ Avrai tempo. Il bambino crescerà, e sarai libero. E così fu.

      L’anno 895

      Sono passati dieci lunghi anni. Il figlio del re è diventato un ragazzo molto sveglio, dallo sguardo sereno. Anche don Guevara è più maturo. Ormai si è abituato alla nuova condizione: ordina l’archivio con entusiasmo; insegna a leggere e scrivere al “figlio adottivo”. Ogni tanto va alla birreria del villaggio e mangia con gli occhi le belle ragazze, ma non pensa affatto a qualche legame serio: nel monastero lo aspetta il bambino, al quale si è affezionato moltissimo, mettendo in quell’amore tutta la nostalgia per la patria e la famiglia, tutto il dolore per le perdite subite, tutta la tenerezza accumulata nella sua giovane anima durante gli anni di vita solitaria.

      Un giorno l’abate lo convoca e chiude bene la porta dietro di lui:

      – ‐ Il tempo è arrivato. È ora che il “nostro” figlio del re si prepari a regnare. I figli dei sostenitori di suo padre – uccisi in battaglia – sono cresciuti.