Olga Kvirkveliya

Una promessa rubata


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Ho creduto che fosse giusto.

      – ‐ Va benissimo. Preparalo.

      Il giorno seguente, domenica, insolitamente molti giovani si recano a messa. Arrivavano uno o due alla volta, quasi tutti a cavallo, solo alcuni a piedi. Entrati nel chiostro, si infilano, oltre la chiesa, nella biblioteca, dove li aspettano don Guevara e il figlio del re. Sancho è nervoso: il destino del suo pupillo sta per definirsi. L’erede al trono è serio e riservato come mai prima.

      I convenuti li osservano alla chetichella, parlottando a bassa voce come in attesa di qualcuno. Finalmente si spalanca la porta ed entra l’abate con alcuni uomini, decisamente più anziani di quelli arrivati prima. Uno di loro, con una orribile cicatrice sulla faccia, osserva attentamente il ragazzo e sospirando esordisce:

      – ‐ Sì. È lui. È una copia di suo padre, solo gli occhi sono della madre.

      Si avvicina al figlio del re e si inchina. Il ragazzo dapprima si discosta un po’, poi gli mette la mano sulla spalla.

      Gli altri non seguono l’uomo con la cicatrice, anche se la diffidenza poco a poco si dilegua dalle loro facce.

      – ‐ Sentiremo prima la sua storia -‐ propone l’abate.

      Don Guevara racconta come aveva trovato la regina morta e, omettendo alcuni dettagli, come dal grembo di lei aveva estratto il neonato.

      I veterani facevano col capo ampi cenni di comprensione. Poi l’abate tira fuori dalla tasca la scatolina con l’anello e la porge al più anziano dei presenti, un uomo ingobbito e dai capelli grigi. Quest’ultimo la osserva e la passa ad un altro; egli stesso, zoppicando vistosamente, si avvicina poi al figlio del re e si inchina. Il ragazzo mette anche a lui la mano sulla spalla.

      Gli astanti, giovani e veterani con le cicatrici, uno dopo l’altro si avvicinano al ragazzo.

      Infine riprendono i loro posti.

      – ‐ Allora, -‐ dice il primo veterano -‐ noi cominceremo a raccogliere gli uomini, intanto il ragazzo resterà ancora da voi. Bisogna prepararlo a regnare. Da quello che capisco, sa già leggere, scrivere e far di conto. Al monastero ha certamente studiato canto, ma servono anche storia, geografia, letteratura, danza e -‐ più importante -‐ l’etichetta di corte.

      – ‐ I libri di storia e geografia sono nella nostra biblioteca e abbiamo già cominciato a studiare danza -‐ replica don Guevara. -‐

      – ‐ In letteratura posso essere d’aiuto io, -‐ interviene l’abate -‐ ho una mia piccola raccolta di manoscritti.

      Il vecchio soghignò:

      – ‐ Non essere troppo modesto, padre, sei un noto esperto in questo campo.

      – ‐ Io, però, non sono molto bravo nell’etichetta cortigiana, e nemmeno i frati -‐ aggiunge Sancho.

      – ‐ Di questo mi occuperò io stesso. Mi prenderete come frate, padre? Sono vecchio e solitario, mia moglie è morta, i figli maggiori sono stati uccisi, quelli minori sono scappati. È tempo di pensare all’anima.

      – ‐ Lo ritengo un onore! -‐

      Tutti escono dalla biblioteca in assoluto silenzio. L’anno 897

      Il figlio del re studiava con zelo. Sembrava che improvvisamente, sotto la pressione della futura responsabilità, fosse diventato adulto. Don Guevara era assolutamente meravigliato per l’acuta intelligenza del suo “trovatello”, per l’ampiezza di vedute, inconsueta alla sua età, la forza di volontà e, si potrebbe dire, il senso dello stato. Persino la sua postura si era modificata.

      Un giorno, mentre studiavano la geografia chini su una mappa, improvvisamente il ragazzo alzò lo sguardo su don Guevara:

      – ‐ Dove si trova la tua contea? Non ho trovato nessun posto con il nome “Guevara”.

      – ‐ In verità non ho una contea -‐ rispose il cavaliere e raccontò all’allievo la sua storia, confessando, a tal proposito, che aveva inventato lui il cognome.

      Il figlio del re si fermò un attimo a pensare, poi riprese:

      – ‐ Tu sei un ladro, vero? Così dice l’abate. Mi hai rubato al destino.

      – ‐ Mah! Si potrebbe dire anche così.

      – ‐ Ladro… Però non sei un ladro qualsiasi, non hai rubato una cosa comune, ma l’erede al trono! Dunque non sei ladro, ma ladrone!

      Il ragazzo sorrise con furbizia:

      – ‐ E allora? Cosa hai inventato, maestà?

      Anche don Guevara sorrideva.

      – ‐ Guarda che cosa ho trovato: una zona che si chiama Latron! Quando salirò sul trono la donerò a te e diventerai il conte di Latron! Questo sarà il tuo vero cognome!

      – ‐ Mi sono già abituato ad essere Guevara. E spero di continuare ad essere un buon guerriero. Presto te lo dimostrerò!

      – ‐ Allora sarai Guevara Ladron! Ma promettimi che sarai soltanto mio guerriero!

      – ‐ Promesso, maestà!

      E così fu.

      Capitolo II

      Don Pedro

      L’anno 1099

      1

      Egli ancora una volta non ha reagito all’appellativo di “conte di Latron”! Non riesce assolutamente ad abituarsi. Né il padre aveva dato il permesso di usare il nome di famiglia “Guevara”.

      Il capostipite un giorno aveva promesso al figlio del re che non sarebbe mai stato un militare al servizio di qualcuno che non fosse lo stesso re. Proprio perché “Guevara” proviene da “guerriero”, “combattente”, nessun Guevara deve combattere per qualcuno che non sia il monarca spagnolo.

      Invece adesso lui non stava combattendo propriamente per conto del re; tanto più che il re di Spagna non partecipava affatto alla spedizione. È questo il motivo per cui ora decide di chiamarsi temporaneamente conte Pedro Latron, che, grazie a Dio, è il secondo nome di famiglia.

      In realtà lui non dovrebbe partecipare a questa campagna. La Spagna ha già abbastanza nemici e le forze per affrontare i Mori chiaramente non bastano. Ma il padre aveva un motivo particolare per mandarlo a liberare Gerusalemme…

      Pedro siede sull’erba appoggiandosi all’albero con la schiena e osserva cupamente come l’acqua trasparente del piccolo fiume corre verso il mare. Non è contento né della una giornata calda e solare, né del pranzo gustoso e abbondante nella taverna, né dell’improvvisa possibilità di rilassarsi tranquillamente. Da quasi un anno non è contento di niente.

      Sì, sono già passati trecentoquarantotto giorni, ma il giovane non può dimenticare come i Mori hanno buttato fuori della porta della città di Calaat-‐Rava il corpo deturpato della sua amata Miriam. L’aveva incontrata per la prima volta mentre passava con la pattuglia vicino al ruscello sotto le mura di Calaat-‐Rava. Era venuta a prendere l’acqua, e il conte Ladron aveva ammirato la sua fine ed elastica figura. Miriam notò il suo sguardo appassionato ma non si spaventò, non scappò via; si limitò a sorridere, abbassando gli occhi.

      Da quel momento il giovane aveva sempre cercato di far parte della pattuglia presso il ruscello. E a lui sembrava che anche la ragazza cercasse di venire più spesso a prendere l’acqua. Passo dopo passo fecero conoscenza: all’inizio, incontrandosi, facevano un semplice cenno con il capo, poi si salutavano, più tardi cominciarono a scambiarsi qualche parola, non significativa ad orecchi estranei ma dolce carezza per gli innamorati.

      Purtroppo qualcuno venne a conoscenza della simpatia “delittuosa” di Miriam per un

      “infedele” e la giovane fu lapidata. Il suo corpo deturpato giacque a terra, al solleone, e le grandi mosche nere vi si riunivano per il sanguinolento banchetto…

      Il padre ed i fratelli