si mosse per andare, ma s’arrestò subito, al pensiero di rivedere la madre, ora che sapeva. La serva, che s’era messa a seguirlo, aggiunse, più piano:
– Bisognerebbe, signorino mio, provvedere a tante cose. Lo so, lei si trova sperduto, così solo, povera anima innocente… È venuto il medico; son corsa in farmacia… ho preso tanta roba… Questo sarebbe nulla; ma c è da pensare, ora, anche alla povera mamma, eh? Come si fa?.. Veda un po’ lei…
Cesarino andò per prender le chiavi. Rivide stesa, lunga e rigida sul letto, la madre, e come attratto dalla vista le si appressò. Ah, mute, mute ora, per sempre, quelle labbra, da cui tante cose egli avrebbe voluto sapere! Se l’era portato via con sé, nel silenzio orribile della morte il mistero di quel bimbo di là, e l’altro della nascita di lui… Ma, forse, cercando, frugando… Dov’erano le chiavi?
Le prese dalla specchiera, e seguì la serva nello studiolo della madre.
– Ecco… veda là, in quello stipetto.
Vi trovò poco più di cento lire, ch’erano forse il residuo dei risparmii.
– Nient’altro?
– Niente, aspetta…
Aveva scorto in quello stipetto alcune lettere. Volle leggerle subito. Ma erano (tre, in tutto) di una maestra della Scuola Professionale, dirette alla madre a Rio Freddo, dove due anni avanti ella, insieme con lui, aveva passato le vacanze estive. E l’anno dopo, quella maestra, collega della madre, era morta. Dall’ultima di quelle lettere, a un tratto scivolò a terra un bigliettino, che la serva s’affrettò a raccogliere.
– Da’ qua! Da’ qua!
Era scritto a lapis, senza intestazione, senza data, e diceva così:
Impossibile, oggi. Forse venerdì. ALBERTO.
– Alberto… – ripeté, guardando la serva. – È lui! Alberto… Lo conosci? Non sai nulla? Proprio nulla! Parla!
– Nulla, signorino mio, gliel’ho detto!
Cercò di nuovo nello stipetto, poi nei cassetti degli armadii, dovunque, scompigliando ogni cosa. Non trovò nulla. Solo quel nome! Solo questa notizia: che il padre di quel bimbo si chiamava Alberto. E suo padre, Cesare… Due nomi: nient’altro. E lei, di là, morta. E tutti quei mobili della casa, inconsapevoli, impassibili. E lui, ora, senza più nessun sostegno, in quel vuoto, con quel bimbo là, che, appena nato, non apparteneva più a nessuno; mentre lui almeno, finora, aveva avuto la madre. Buttarlo via? No, no, povero piccino!
Commosso da una veemente pietà, ch’era già quasi tenerezza fraterna, sentì destarsi dentro una disperata energia. Trasse dallo stipetto alcune gioje della madre e le diede alla serva, perché cercasse di cavarne denaro, per il momento. Si recò nella saletta per pregare il custode, che l’aveva accompagnato, di attender lui a quanto si doveva ancor fare per la mamma. Ritornò dalla levatrice, per pregarla di cercare subito una balia. Corse a prendere il suo berretto da collegiale, là, nella camera mortuaria; e dopo avere in cuor suo promesso alla madre che quel suo piccino non sarebbe perito e neanche lui, corse al collegio, a parlare col Direttore.
Era divenuto un altro, in pochi istanti. Espose al Direttore, senza un lamento, il suo caso, il, suo proposito, chiedendogli ajuto, sicuramente, con la ferma convinzione che nessuno avrebbe potuto negarglielo, perché ne aveva il diritto sacrosanto, ormai, per tutto il male che, innocente, gli toccava soffrire, dalla propria madre, da quell’ignoto che gli aveva dato la vita, da quest’altro ignoto che gli aveva tolto la madre, lasciandogli in braccio un bambino appena nato.
Il Direttore che, ascoltandolo, stava a mirarlo a bocca aperta e con gli occhi pieni di lagrime, subito lo assicurò che avrebbe fatto di tutto per ottenergli al più presto un soccorso, e che non lo avrebbe mai, mai abbandonato. Se lo strinse al petto, pianse con lui, gli disse che quella sera stessa sarebbe venuto a trovarlo a casa e, sperava, con una buona notizia.
– Sta bene. Sissignore. L’aspetto.
E ritornò di furia a casa.
Il soccorso, tenue, giunse sollecito; e Cesarino quasi non se ne accorse, perché servì subito per il trasporto della mamma, a cui pensarono gli altri.
Egli non pensò più che al bambino, come salvarlo insieme con sé, fuori, fuori di quella trista casa dove tanta agiatezza, chi sa come, chi sa donde era entrata, per finir di confonderlo: mobili, tende, tappeti, stoviglie, tutto quell’arredo, se non proprio di lusso, certo costoso. Lo guardava quasi con rancore per il segreto ch’esso serbava della sua provenienza. Bisognava disfarsene al più presto, trattenendo soltanto le cose più umili e necessarie per arredarne le tre povere stanzette, prese a pigione fuori di porta con l’ajuto del Direttore del collegio.
Coi negozianti di mobili usati e i rigattieri ai quali si rivolse per consiglio degli altri casigliani, ne contrattò la rivendita con accanimento; perché – cosa strana! – gli parve che appartenessero sopratutto al bambino, quei mobili, or che la mamma era morta per lui, rendendo nota a tutti così la vergogna di quell’agiatezza; e al bambino almeno, perdio, si poteva concedere il diritto, piccino com’era e ignaro di tutto, di non sentirla quella vergogna; se uno, invece di lui, ne difendeva gl’interessi.
Avrebbe rivenduto anche gli abiti e tante galanterie rimaste della mamma a una malinconica rigattiera malaticcia, che gli si presentò tutta gale e cascante di stanchezza e di vezzi, se costei, parlando molle molle tra dolci sorrisi non gli avesse lasciato intendere a quale clientela destinava quegli abiti e quelle gale. La cacciò via. Ah quelle spoglie, quasi vive ancora, come serbavano il profumo che tanto lo aveva turbato negli ultimi tempi! Gli parve ora, nella bracciata che ne fece per andarle a riporre, di sentirci come l’alito del bimbo, a riprova della strana impressione che tutto, tutto lì appartenesse a lui, lavato, incipriato, avvolto in quel corredino ricco ch’ella gli aveva preparato prima di morire. Ecco, gli appariva ormai come una cosa preziosa, preziosa e cara, quel bimbo, non più soltanto da salvare, ma anche da tener custodito con tutte quelle cure che certamente avrebbe avuto per lui la mamma, di cui era felice di risentire in sé, così d’improvviso ridestata, la bella alacrità coraggiosa.
Non s’accorgeva, come potevano accorgersi gli altri, che la vivace e ardente prontezza disinvolta della mamma, nella sgraziata magrezza del suo corpicciuolo, appariva come un disperato sforzo, che lo rendeva ispido, sospettoso ed anche crudele. Sì, anche crudele, come si dimostrò nel licenziare la vecchia serva Rosa che pure era stata tanto buona per lui, in quel trambusto. Ma non gli si poteva voler male di quello che faceva o che diceva. Era giusto, in fondo, che licenziasse la serva, dovendo sostenere la grossa spesa della balia per il bambino: avrebbe, sì, potuto farlo con un altra maniera; ma gli si perdonava anche questa, come del resto gliel’aveva perdonato la stessa Rosa; perché forse, poverino, neanche il sospetto poteva avere d’esser crudele verso gli altri, lui che sperimentava in quel momento e in quella misura la crudeltà feroce della sorte. Tutt’al più, se la compassione non l’avesse impedito, sorridere se ne poteva, nel vederlo così assaettato, con quelle spallucce strette e troppo in su, e la faccetta pallida e dura protesa come a rintuzzare, con gli occhi aguzzi dietro quelle forti lenti da miope. Affannato, angosciato dalla paura di non arrivare mai a tempo, correva di qua, di là, per trar partito da tutto. Lo ajutavano e non ringraziava nemmeno. Non ringraziò neanche il Direttore del collegio quando, nella casetta nuova, dopo lo sgombero, venne ad annunziargli che gli aveva trovato il posto di scrivanello al Ministero della Pubblica Istruzione.
– È poco, sì. Ma verrai la sera al collegio, all’uscita dal Ministero, per qualche lezioncina privata ai convittori, scolaretti del ginnasio inferiore. Vedrai che ti basterà. Tu sei bravo.
– Sissignore. Ma l’abito?
– Che abito?
– Non posso mica andare al Ministero vestito ancora da collegiale.
– Indosserai uno degli abiti che avevi prima d’entrare in collegio.
– Nossignore, non posso. Sono tutti come li voleva la mamma, coi calzoni corti. E poi, neanche neri.
Ogni difficoltà che gli si parava davanti (ed erano tante!), lo irritava, più che sbigottirlo. Voleva vincere; doveva vincere.