studiar tranquillamente. La sera, rincasando, trovava tutto in ordine; Ninnì lindo come uno sposino, e gustosa la cena e soffice il letto. Era la felicità. I primi gridolini, certe mossette piene di grazia di Ninnì lo facevano impazzire dalla gioja. Lo mandava a pesare ogni due giorni, per paura che calasse di peso con quell’allattamento artificiale, non ostante che Rosa lo rassicurasse:
– Ma non sente che a momenti pesa più di me? Sempre con la trombetta in bocca!
La trombetta era il biberon.
– Su, Ninnì, fatti una sonatina!
E Ninnì, subito: non se lo faceva dire due volte, e non gli bastava che gliela reggessero gli altri, la trombetta se la voleva reggere anche da sé, là, da bravo trombettiere e socchiudeva languidi i cari occhiuzzi dalla voluttà. Lo guardavano tutt’e due, in estasi; e, poiché il bimbo, spesso prima che finisse di succhiare, s’addormentava, zitti zitti si levavano e andavano in punta di piedi e rattenendo il respiro a deporlo nella culla.
Riprendendo lo studio serale con raddoppiata lena, ormai sicuro dell’esito, le vere ragioni per cui Napoleone Bonaparte era stato sconfitto a Waterloo, Cesarino oramai le penetrava benissimo.
Se non che, una sera, rientrando in casa – di furia, come soleva, quasi assetato d’un bacio del suo Ninnì – fu arrestato su la soglia da Rosa, la quale, tutta turbata, gli annunziò che c’era di là un signore che voleva parlargli e che lo aspettava da una buona mezz’ora.
Cesarino si trovò di fronte un uomo di circa cinquant’anni, alto di statura e ben piantato, vestito tutto di nero per lutto recentissimo, grigio di capelli e bruno in volto dall’aria cupa, grave. Si era alzato al suono del campanello della porta, e lo attendeva nella saletta da pranzo.
– Desidera parlarmi? – gli domandò Cesarino, osservandolo, sospeso e costernato.
– Sì, da solo; se permette.
– Venga, entri.
E Cesarino gl’indicò l’uscio della sua cameretta e lo fece passare avanti; poi, richiuso l’uscio, con le mani che già gli ballavano, si volse, alterato in viso, pallidissimo, con gli occhi strizzati dietro le lenti e le ciglia corrugate, e avventò la domanda:
– Alberto?
– Rocchi, sì. Sono venuto…
Cesarino gli s’appressò, convulso, trasfigurato, come se volesse inveire:
A far che? In casa mia?
Quegli si trasse indietro, impallidendo e contenendosi:
– Mi lasci dire. Vengo con buone intenzioni.
– Che intenzioni? Mia madre è morta!
– Lo so.
– Ah, lo sa? E non le basta? Se ne vada via subito, o lo farò pentire!
– Ma scusi!
– Pentire, pentire d’esser venuto qua a infliggermi l’onta…
– Ma no… scusi…
– L’onta della sua vista! Sissignore. Che vuole me?
– Se non mi lascia dire, scusi… Si calmi! – riprese egli, così investito, sconcertato. – Io comprendo… Ma bisogna che le dica…
– No! – gridò Cesarino, risoluto, fremente, levando le gracili pugna. – Guardi, io non voglio saper nulla! Non voglio spiegazioni! Le basti avere osato di comparirmi davanti! E se ne vada!
– Ma qua c’è mio figlio… – disse allora quegli, torbido e spazientito.
– Vostro figlio? – inveì Cesarino. – Ah, siete venuto per questo? Ve ne ricordate adesso, che c è vostro figlio qua?
– Prima non potevo… Se non mi lasciate dire…
– Che volete dire? Andate via! Andate via! Avete fatto morire mia madre! Andate via, o chiamo gente!
Il Rocchi socchiuse gli occhi; trasse, gonfiandosi, un profondo sospiro e disse:
– Va bene. Vuol dire che farò valere altrove le mie ragioni.
E s’avvio.
– Ragioni? Voi? – gli gridò dietro Cesarino, perdendo il lume degli occhi. – Miserabile! Dopo che m’hai ucciso la madre, vuoi aver ragioni da far valere? Tu, contro di me? Ragioni?
Quegli si voltò a guardarlo, fosco; ma aprì poi la bocca a un sorriso tra di sdegno e di compassione per la gracilità di quel ragazzo che lo insultava.
– Vedremo, – disse.
E se n andò.
Cesarino rimase al bujo, nella saletta, dietro la porta tutto vibrante dell’impeto violento che in lui, timido, debole, avevano fatto il rancore, l’onta, la paura di perdere il suo piccino adorato. Rimessosi alla meglio, andò a bussare all’uscio di Rosa, che s’era chiusa a chiave, col bimbo stretto tra le braccia.
– Ho capito! Ho capito! – gli disse Rosa.
– Voleva Ninnì.
– Lui?
– Sì. E le sue ragioni, capisci? Vuol far valere…
– Lui? E chi può dar ragione a lui?
– È il padre. Ma mi può togliere forse Ninnì ora? L’ho cacciato via, come un cane! Gli ho detto che… che m’ha ucciso la madre… e che l’ho raccolto io, il bambino… e che ora è mio, è mio; e nessuno me lo può strappare dalle braccia! Mio! Mio!… Guarda un po’… Miserabile… assa… assassino…
– Ma sì! Ma certo! Si calmi, signorino! – gli disse Rosa, più afflitta e costernata di lui. – Mica con la forza potrà venire a prenderglielo, il bambino. Lei avrà pure le sue ragioni da far valere. E vorrei veder questa, ora, che ci levassero Ninnì che abbiamo allevato noi. Ma stia tranquillo, che non si farà più vedere, dopo la degna accoglienza che lei gli ha fatta.
Né queste, però, né altre assicurazioni che la buona vecchia ripeté durante tutta la sera, valsero a tranquillare Cesarino. Il giorno dopo, là, al Ministero, provò un vero, eterno supplizio. A mezzogiorno, scappò a casa, trepidante, col cuore in gola. Non voleva più ritornare all’ufficio per le tre del pomeriggio; ma Rosa lo spinse ad andare, promettendogli che avrebbe tenuto la porta sprangata e non avrebbe aperto a nessuno e che non avrebbe lasciato Ninnì neanche per un minuto. Così egli andò; ma rincasò alle sei, senza recarsi al collegio per la ripetizione a gli scolaretti.
Nel vederselo davanti come uno stordito, così abbattuto e costernato, Rosa cercò in tutti i modi di scuoterlo. Ma invano. Aveva un presentimento Cesarino, che gli rodeva l’anima e non gli dava requie. Passò insonne tutta la nottata.
Il giorno appresso, non ritornò a casa a mezzodì per il desinare. La vecchia Rosa non sapeva come spiegarsi quel ritardo. Verso le quattro, finalmente, lo vide arrivare ansante, livido, con una fissità truce negli occhi.
– Devo darglielo. M’hanno chiamato in questura. C’era anche lui. Ha mostrato le lettere di mia madre. È suo.
Disse così, a scatti, senza alzar gli occhi a guardare il bimbo, che Rosa teneva in braccio.
– Oh cuore mio! – esclamò questa, stringendosi al seno Ninnì. – Ma come? Che ha detto? Come ha potuto la giustizia?…
– È il padre! È il padre! – rispose Cesarino. – Dunque è suo!
– E lei? – domandò Rosa. – Come farà lei?
– Io? Io, con lui. Ce n’andremo insieme.
– Con Ninnì, da lui?
– Da lui.
– Ah, così?… tutt’e due insieme, allora? Ah, così va bene! Non lo lascerà… E io, signorino? Questa povera Rosa?
Cesarino, per non risponderle direttamente, si tolse in braccio il piccino, se lo strinse al petto, e, piangendo, cominciò a dirgli:
– La povera Rosa, Ninnì? Insieme con noi anche lei? Non è giusto!