Emilio Salgari

I misteri della jungla nera


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– ma una sola volta.

      – Quando?

      – La notte che scomparve Tamul, vale a dire sei mesi fa.

      – Sicché credi anche tu, come Kammamuri, che segnali una disgrazia?

      – Si, padrone.

      – Sai chi è che lo suona?

      – Non lo seppi mai.

      – Credi tu che il suonatore abbia relazione coi misteriosi abitanti di Raimangal?

      – Lo credo.

      – Chi sospetti che siano quegli uomini?

      – Sono poi uomini?

      – Non credo che siano le anime dei morti.

      – Allora saranno pirati, – disse Aghur.

      – E quale interesse possono avere, per assassinare i miei uomini?

      – Chissà, forse quello di spaventarci e di tenerci lontani.

      – Dove supponi che abbiano le loro capanne?

      – L’ignoro, ma oserei dire che ogni notte si radunano sotto la fosca ombra del banian sacro.

      – Sta bene, – disse Tremal-Naik. – Kammamuri, prendi i remi.

      – Cosa vuoi fare, padrone? – chiese il maharatto.

      – Recarmi al banian.

      – Oh! Non farlo, padrone! – gridarono a un tempo i due indiani.

      – Perché?

      – Ti ammazzeranno come hanno ammazzato il povero Hurti.

      Tremal-Naik li guardò con due occhi che mandavano fiamme.

      – Il cacciatore di serpenti non tremò mai in sua vita, né tremerà questa sera. Al canotto, Kammamuri! – esclamò egli, con un tono di voce da non ammettere replica.

      – Ma, padrone!…

      – Hai paura forse? – chiese sdegnosamente Tremal-Naik.

      – Sono maharatto! – disse l’indiano con fierezza.

      – Va’ allora. Questa notte io saprò chi sono quegli esseri misteriosi che mi hanno dichiarato la guerra: e chi è colei che mi ha stregato.

      Kammamuri prese un paio di remi e si diresse verso la riva. Tremal-Naik entrò nella capanna, staccò da un chiodo una lunga carabina dalla canna rabescata, si munì di una gran fiasca di polvere e si passò nella cintola un largo coltellaccio.

      – Aghur, tu rimarrai qui, – diss’egli, uscendo. Se fra due giorni non saremo ritornati, verrai a raggiungerci a Raimangal colla tigre o con Punthy.

      – Ah! padrone…

      – Non ti senti il coraggio bastante per venire laggiù?

      – Del coraggio ne ho, padrone. Volevo dire che fai male a recarti in quell’isola maledetta.

      – Tremal-Naik non si lascia assassinare, Aghur.

      – Prendi con te Darma. Potrebbe esserti utile.

      – Tradirebbe la mia presenza ed io voglio sbarcare senza esser veduto, né udito. Addio, Aghur.

      Si gettò la carabina ad armacollo e raggiunse Kammamuri, che lo attendeva presso ad un piccolo gonga, rozzo e pesante battello, scavato nel tronco di un albero.

      – Partiamo, disse.

      Saltarono nel battello e presero il largo, remando lentamente ed in silenzio.

      Un’oscurità profonda, resa densa da una nebbia pestilenziale che ondeggiava sopra i canali, le isole e le isolette, copriva le Sunderbunds e la corrente del Mangal.

      A destra ed a sinistra si estendevano masse enormi di bambù spinosi, di cespugli fitti, sotto i quali si udivano brontolare le tigri e sibilare i serpenti, di erbe lunghe e taglienti, confuse, amalgamate, strette le une alle altre in modo da impedire il passo.

      In lontananza però, sulla fosca linea dell’orizzonte, spiccavano qua e là alcuni alberi, dei manghi carichi di frutta squisite, dei palmizi tara, dei latania e dei cocchi dall’aspetto maestoso, con lunghe foglie disposte a cupola.

      Un silenzio funebre, misterioso, regnava ovunque, rotto appena appena dal mormorìo delle acque giallastre che radevano i rami arcuati dei paletuvieri e le foglie del loto e dal fruscio dei bambù scossi da un soffio di aria calda, soffocante, avvelenata.

      Tremal-Naik, sdraiato a poppa, col fucile sottomano, taceva e teneva aperti gli occhi fissandoli ora sull’una e ora sull’altra riva, dove udivansi sempre rauchi brontolii e sibili lamentevoli. Kammamuri, invece, seduto nel mezzo, faceva volare il piccolo gonga il quale lasciavasi dietro una scia di una fosforescenza ammirabile, da far quasi credere che quelle acque corrotte fossero sature di fosforo.

      Ogni qual tratto, però, cessava di remare, ratteneva il respiro e stava alcuni istanti in ascolto, chiedendo di poi al cacciatore di serpenti se nulla avesse udito o veduto.

      Era di già mezz’ora che navigavano, quando il silenzio fu rotto dal ramsinga, che si fece udire sulla riva destra, ma così vicino, da sospettare che il suonatore si trovasse a un centinaio di passi di distanza.

      – Alto! – mormorò Tremal-Naik.

      Non aveva ancora terminata la parola, che un secondo ramsinga rispose al primo, ma ad una distanza maggiore, intuonando una melodia malinconica, quanto era brillante e viva l’altra. La musica indiana si basa su quattro sistemi che hanno un’intima relazione colle quattro stagioni dell’anno ed a ciascuno di essi viene applicato un tono e modo particolare.

      È malinconica nella stagione fredda, viva ed allegra nel ringiovanire della stagione, languida nei grandi calori d›estate e brillante nell›autunno.

      Perché mai quei due istrumenti suonavano così contrariamente? Era forse un segnale? Kammamuri lo temeva.

      – Padrone – diss’egli, – siamo stati scoperti.

      – È probabile, – rispose Tremal-Naik, che ascoltava attentamente.

      – Se ritornassimo? Questa notte non fa per noi.

      – Tremal-Naik non ritorna mai. Arranca e lascia che i ramsinga suonino a loro piacimento.

      Il maharatto riprese i remi spingendo innanzi il gonga, il quale non tardò a giungere in un luogo dove il fiume stringevasi a mo’ di collo di bottiglia. Un buffo d’aria tiepida, soffocante, carica d’esalazioni pestifere, giunse al naso dei due indiani.

      Dinanzi a loro, ad un tre o quattrocento passi, apparvero molte fiammelle che vagolavano bizzarramente sulla nera superficie del fiume. Alcune, come fossero attirate da una forza misteriosa, vennero a danzare dinanzi alla prua del gonga, allontanandosi dipoi con fantastica rapidità.

      – Eccoci al cimitero galleggiante, – disse Tremal-Naik. – Fra dieci minuti arriveremo al banian.

      – Passeremo col gonga? – chiese Kammamuri.

      – Con un po’ di pazienza si passerà.

      – È male, padrone, offendere i morti.

      – Brahma e Visnù ci perdoneranno. Arranca, Kammamuri.

      Il gonga, con pochi colpi di remo raggiunse la stretta del fiume e sboccò in una specie di bacino, sul quale si intrecciavano i lunghi rami di colossali tamarindi, formando una fitta volta di verzura.

      Colà galleggiavano parecchi cadaveri che i canali del Gange avevano trascinato fino al Mangal.

      – Avanti! – disse il cacciatore di serpenti.

      Kammamuri stava per ripigliare i remi, quando la volta di verzura, che copriva quel cimitero galleggiante, s’aprì per dar passaggio a uno stormo di strani esseri dalle ali nere, i trampoli lunghissimi, i becchi aguzzi e smisurati.

      – Cosa c’è di nuovo? – esclamò Kammamuri sorpreso.

      – I