Emilio Salgari

I misteri della jungla nera


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Kammamuri, – ripeté Tremal-Naik.

      Il gonga spinto innanzi, e dopo una buona mezz’ora, attraversato il cimitero, trovossi in un bacino assai più ampio, completamente sgombro, che veniva diviso in due bracci da una aguzza punta di terra, sulla quale spiccava un grandissimo e singolare albero.

      – Il banian! – disse Tremal-Naik.

      Kammamuri a quel nome fremette.

      – Padrone! – mormorò, coi denti stretti.

      – Non temere, maharatto. Deponi i remi e lascia che il gonga s’areni da sé sull’isola. Forse c’è qualcuno nei dintorni.

      Il maharatto ubbidì sdraiandosi sul fondo del canotto, mentre Tremal-Naik, armata per ogni precauzione la carabina, faceva altrettanto.

      Il gonga, trasportato dalla corrente che facevasi lievemente sentire, si diresse, girando su se stesso, verso la punta settentrionale dell’isola Raimangal, sede degli esseri misteriosi che avevano assassinato il povero Hurti.

      Un silenzio profondo regnava in quel luogo. Non si udiva nemmeno lo stormire dei giganteschi bambù, essendo cessato il venticello notturno, né le note dei ramsingo. Il fiume stesso pareva che fosse diventato d’olio.

      Tremal-Naik di quando in quando, però, alzava con precauzione la testa e scrutava attentamente le rive, per nulla rassicurato da quel silenzio. Il gonga si arenò, con un lieve strofinìo, a un centinaio di passi appena dal banian, ma i due indiani non si mossero.

      Passarono dieci minuti d’angosciosa aspettativa, poi Tremal-Naik ardì alzarsi. Prima cosa che gli diede nell’occhio, fu una forma nera, confusa, distesa fra le erbe, ad una ventina di metri dalla riva.

      – Kammamuri, – mormorò. – Alzati ed arma le tue pistole.

      Il maharatto non se lo fece dire due volte.

      – Cosa vedi, padrone? – chiese egli con un filo di voce.

      – Guarda laggiù.

      – Eh!… – fe’ il maharatto, sbarrando gli occhi. – Un uomo!

      – Zitto!

      Tremal-Naik alzò la carabina prendendo di mira quella massa nera che aveva l’apparenza d’un essere umano sdraiato, ma l’abbassò senza scaricarla.

      – Andiamo a vedere cos’è, Kammamuri, – diss’egli.– Quell’uomo non è vivo.

      – E se fingesse d’essere morto?

      – Peggio per lui.

      I due indiani sbarcarono, dirigendosi quatti quatti verso quell’individuo che non dava segno di vita. Erano giunti ad una diecina di passi, quando un marabù si alzò rumorosamente volando verso il fiume.

      – È un uomo morto, – mormorò Tremai-Naik. – Se fosse…

      Non terminò la frase. In quattro salti raggiunse quel cadavere; una sorda esclamazione gli uscì dalle labbra contorte per l’ira. – Hurti! – esclamò.

      Infatti quel cadavere era Hurti, il compagno dell’indiano Aghur.

      L’infelice era disteso sul dorso, colle gambe e le braccia raggrinzate, probabilmente per lo spasimo, la faccia spaventosamente scomposta e gli occhi aperti, schizzanti dalle orbite. Le ginocchia erano rotte e insanguinate ed egualmente i piedi, segno evidente che era stato trascinato per qualche tratto sul terreno, forse quando era ancora agonizzante, e dalla bocca sbarrata uscivagli d’un buon palmo la lingua.

      Tremal-Naik sollevò lo sventurato indiano per vedere in qual luogo era stato colpito, ma non trovò sul corpo di lui alcuna ferita. Esaminandolo però meglio, vide attorno al collo una lividura assai marcata e dietro il cranio una contusione, che pareva prodotta da una grossa palla o da un sasso arrotondato.

      – L’hanno stordito prima e poi strangolato, diss’egli, con voce sorda.

      – Povero Hurti, – mormorò il maharatto.– Ma perché assassinarlo e in questo modo?

      – Lo sapremo, Kammamuri, e ti giuro che Tremal-Naik non lascierà impunito il delitto.

      – Ma temo, padrone, che gli assassini siano molto potenti.

      – Tremal-Naik sarà più potente di loro. Orsù, ritorna al canotto.

      – E Hurti? Lo lascieremo qui?

      – Lo getterò nelle sacre acque del Gange domani mattina.

      – Ma le tigri, questa notte lo divoreranno.

      – Sul cadavere di Hurti veglia il cacciatore di serpenti.

      – Ma come? Non ritorni tu?

      – No, Kammamuri, io rimango qui. Quando avrò sbrigato le mie faccende, abbandonerò quest’isola.

      – Ma tu vuoi farti assassinare.

      – Un sorriso sdegnoso sfiorò le labbra del fiero indiano.

      – Tremal-Naik è un figlio della jungla! Ritorna al canotto, Kammamuri.

      – Oh mai, padrone!

      – Perché?

      – Se ti accade una disgrazia, chi ti aiuterà? Lascia che t’accompagni e ti giuro che ti seguirò dove tu andrai.

      – Anche se io mi recassi a trovare la visione?

      – Sì, padrone.

      – Rimani con me, prode maharatto, e vedrai che noi due faremo per dieci. Seguimi!

      Tremal-Naik si diresse verso la riva, afferrò il gonga a tribordo e con una violenta scossa lo rovesciò, calando a picco.

      – Cosa fai? – chiese Kammamuri, sorpreso.

      – Nessuno deve sapere che noi siamo qui giunti. E ora, a noi lo svelare il mistero.

      Cambiarono la polvere alle carabine ed alle pistole, onde essere sicuri di non mancare al colpo, e si diressero verso il banian, la cui imponente massa spiccava fieramente nella profonda tenebra.

      III. Il vendicatore di Hurti

      I banian, chiamati altresì al moral o fichi delle pagode, sono gli alberi più strani e più giganteschi che si possa immaginare.

      Hanno l’altezza ed il tronco delle nostre più grandi e più grosse quercie e dagli innumerevoli rami, tesi orizzontalmente, scendono delle finissime radici aeree, le quali, appena toccano terra, s’affondano e s’ingrossano rapidamente, infondendo nuovo nutrimento e più vigorosa vita alla pianta.

      Avviene così, che i rami s’allungano sempre più, generando nuove radici e quindi nuovi tronchi sempre più lontani, di maniera che un albero solo copre una estensione vastissima di terreno. Si può dire che forma una foresta sostenuta da centinaia e centinaia di bizzarri colonnati, sotto i quali i sacerdoti di Brahma collocano i loro idoli. Nella provincia di Guzerate esiste un banian chiamato Cobir bor assai venerato dagli indiani ed al quale non esitano a dare tremila anni d’età; ha una circonferenza di duemila piedi e non meno di tremila colonne o radici che dir si voglia. Anticamente era assai più vasto, ma parte di esso fu distrutto dalle acque del Nerbudda, che rosero una parte dell’isola su cui cresce.

      Il banian sotto il quale i due indiani stavano per passare la notte, era uno dei più giganteschi, fornito di più di seicento colonne, sostenenti smisurati rami carichi di piccoli frutti vermigli e con un tronco grossissimo, ma che ad una certa altezza era tagliato.

      Tremal-Naik e Kammamuri, dopo di avere esaminato scrupolosamente colonnato per colonnato per assicurarsi che dietro non celavasi alcuno, si sedettero vicino al tronco l’uno presso l’altro, colla carabina montata, posata sulle ginocchia.

      – Qui qualcuno verrà, – disse il cacciatore di serpenti, sottovoce.

      – Sfortuna al primo che giunge sotto il tiro della mia carabina.

      – Credi adunque che gli esseri misteriosi che assassinarono Hurti, vengano qui? – chiese Kammamuri.

      – Sono