Emilio Salgari

La rivicità di Yanez


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piú vicino di quello che potete immaginarvi. Ah!… Vedete?

      Una lampada era comparsa allo svolto della galleria, e subito l’uomo che la reggeva.

      Yanez ed il cacciatore di topi mandarono due grida:

      – Kiltar!…

      – Sí, sono io – rispose il bramino, avvicinandosi rapidamente. – Non credevo di trovarvi qui.

      – Tu sei entrato da un sotterraneo? – gli chiese Yanez.

      – Sí, d’un grande palazzo che un giorno era stato abitato, se non m’inganno, da uno dei vostri ministri.

      – Quali nuove rechi?

      – Gravi, Altezza – rispose Kiltar, il cui volto si era offuscato. – Sindhia lavora attivamente alla vostra perdita.

      – In quale modo?

      – Un gran numero dei suoi uomini sono stati mandati nelle jungle a far raccolta di grossi bambú.

      – Non saprei a che cosa gli possono servire. Forse a riedificare la capitale? Riuscirà un bel villaggio facile a bruciarsi.

      – Non scherzate, Maharajah. Quei bambú serviranno come conduttura d’acqua.

      Yanez aggrottò la fronte.

      – Vorrebbe tentare di annegarci? E dove prenderà l’acqua?

      – Io non so, ma pare che i suoi fakiri abbiano scoperta una grossa sorgente.

      – Ci vorrà del tempo prima che si costruiscano tante condutture. E poi non credo che queste cloache siano facili ad inondarsi, avendo per scolo il fiume nero. Sindhia ed i suoi uomini perderanno inutilmente il loro tempo.

      – E se riuscissero nel loro intento?

      – Allora, prima di lasciarci annegare come tanti topi, attaccheremo a fondo, alla disperata; perciò abbiamo bisogno assoluto di conservare i nostri elefanti e quanti piú cavalli potremo.

      – Ma quelle bestie non potranno mai passare per queste gallerie – disse il bramino.

      – Lo so, e non sarà da questa parte che noi attaccheremo.

      – Dove andrete allora?

      – In cerca di fogliame per gli elefanti che soffrono piú dei cavalli. Vi sono truppe al di là dei bastioni?

      – In certi luoghi sí, ma io vi farò passare attraverso le muraglie degli antichi giardini che hanno resistito al fuoco. Qualche cosa della vostra capitale è rimasto, ma ben poca cosa.

      – Il palazzo reale è crollato?

      – Distrutto completamente. Anche tutti i palazzi, le pagode, le moschee sono state sfasciate dal fuoco.

      – Orsú, non perdiamo tempo, gran sahib – disse il cacciatore di topi. – Dobbiamo ritornare prima dell’alba.

      – Hai ragione – rispose Yanez. – Riaccendete le torce.

      Il drappello si rimise in marcia, affrettando il passo. La galleria saliva rapidamente e conservava ancora un forte calore sebbene fossero passati tanti giorni dall’incendio.

      Cinque minuti dopo i sedici uomini entrarono in un vasto sotterraneo che non doveva aver mai fatto parte delle cloache.

      Delle pareti, calcinate dal fuoco, erano crollate, e un’apertura assai larga si era formata.

      – Ci siamo – disse il bramino. – Una scala e saremo all’aperto.

      – Non ci saranno soldati dispersi fra le rovine?

      – Non ho veduto che qualche affamato.

      – Ah! …

      – Che cosa avete, Altezza?

      – Stanno tutti bene al campo di Sindhia?

      – Per ora sí.

      – Malgrado la rottura di quelle due bottiglie?

      – Sí, Altezza. Forse la malattia si svilupperà piú tardi.

      – Può darsi. Aspetteremo.

      Attraversarono il sotterraneo, giunsero ad una scala di pietra e si trovarono all’aperto fra una immensa quantità di macerie.

      – Povera la mia capitale!… – disse Yanez. – Eppure non potevo fare a meno di distruggerla per trattenere gli assalti di Sindhia.

      «Senza questo gigantesco incendio, non avrei potuto attendere l’arrivo di Sandokan.»

      Kiltar si era fermato dietro ad una muraglia tutta nera, e pareva che cercasse di orizzontarsi fra quel caos immenso di rovine.

      – Seguitemi – disse ad un tratto. – Non faremo cattivi incontri, ma è necessario che spengiate voi le torce ed io la mia lampada. Riaccenderemo piú tardi le une e l’altra se ne avremo bisogno.

      Ascoltò per qualche momento, poi si mise in marcia, seguendo la muraglia, la quale pareva che si stendesse in direzione dei bastioni.

      Un silenzio immenso regnava sulla città distrutta. Pareva che fosse diventata la città dei morti.

      Tuttavia, in lontananza, fra le tenebre, brillavano numerosi fuochi i quali indicavano gli accampamenti dei banditi di Sindhia.

      Il drappello affrettava la marcia, procedendo in fila indiana, colle carabine montate.

      Fra tutte quelle rovine regnava ancora un gran calore. Si sarebbe detto che in certi luoghi, anche dopo tanti giorni, il fuoco covava ancora.

      Ed infatti, di quando in quando, delle folate d’aria ardentissima, soffocante, si abbattevano sul drappello, arrestandolo nella sua marcia per qualche minuto ed anche piú.

      – Mi chiameranno il Nerone dell’India – disse Yanez. – Io però dovevo salvare la mia pelle.

      Finalmente i bastioni comparvero. Erano ridotti in uno stato miserando a cagione dello scoppio delle polveriere.

      Squarci giganteschi, ingombri in parte di rottami, si scorgevano qua e là, ed erano cosí larghi da permettere il passaggio anche di una grossa colonna d’assalto.

      Kiltar che pareva conoscesse la città meglio del Maharajah e perfino del rajaputo, guidò il drappello attraverso ad uno squarcio enorme, sui cui margini si stendevano delle casematte completamente sventrate, e lo condusse in aperta campagna.

      Da quella parte nessun fuoco brillava. Sindhia non aveva pensato a circondare completamente la città, non immaginandosi mai che dalle cloache si potesse, in qualche luogo, giungere a fior di terra.

      – Ah, il famoso guerriero! – esclamò Yanez con voce ironica. – E si vanta un gran capitano! Ben guidati quei poveri paria, fakiri e rajaputi! Ci vuole ben altro per fare la guerra!

      Attraversarono il bastione e si gettarono nella tenebrosa campagna, non rischiarata né dalla luna, né dalle stelle essendo il cielo assai coperto.

      Intorno alla capitale piante ed erbe ve n’erano in abbondanza, un po’ appassite per l’intenso calore, ma i banani dalle foglie gigantesche avevano resistito meravigliosamente.

      Una fattoria si trovava a breve distanza; era una casa piuttosto massiccia, circondata da alberi colossali.

      Il drappello, temendo sempre un improvviso assalto, quantunque nulla lo facesse presentire, invase l’orto della casa e si mise a sciabolare frettolosamente rami ed erbe.

      Già avevano completato un buon carico, capace di levare la fame, almeno per una volta, alle bestie, quando Kiltar ed il cacciatore di topi, che si erano messi in sentinella, si avvicinarono rapidamente a Yanez il quale fumava la sigaretta con la sua solita tranquillità.

      – Altezza, – disse il bramino – gli uomini di Sindhia ci hanno seguiti e fors’anche circondati.

      – Ah!… – fece semplicemente il portoghese. – Mi rincresce solamente per gli elefanti. Qui vi è una casa e abbastanza solida. Occupiamola e vediamo come sapranno comportarsi i famosi guerrieri di Sindhia. Per Giove, gli affari prendono cattiva piega!

      «Noi