Emilio Salgari

Le figlie dei faraoni


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mar Rosso e all’ovest dal deserto libico, era stata per un numero infinito di secoli governata da un dio chiamato, secondo gli uni Horus e secondo gli altri Osiride; che quel dio un giorno, stanco, la abbandonò nelle mani d’un essere umano chiamato Mêna, che fu il primo dei Faraoni, ed a cui passò il diritto divino.

      Potevano dunque quei miserabili beoni alzare le armi contro un uomo che discendeva da un dio e che la maliarda aveva loro rivelato?

      La ritirata degli assalitori non tardò a cambiarsi in una fuga precipitosa e ben presto, con grande stupore di Mirinri, che non si rendeva ancora conto della sua infinita potenza, la riva del Nilo rimase deserta.

      «Fuggiti tutti!» esclamò, guardando Nefer che si teneva sempre ritta sulla murata, colle mani tese in alto. «Chi è costei e quale forza occulta nasconde nel suo corpo per mettere in rotta un piccolo esercito?»

      «Ella ti ha tradito, mio signore,» disse Ata che teneva ancora la spada in mano e che pareva in preda ad una vivissima eccitazione.

      «Mi ha salvato invece,» rispose Mirinri.

      «No: essi ormai sanno che nella mia barca si nasconde un Faraone e fra giorni questa voce giungerà a Menfi. Uccidila! Il Nilo è qui profondo e non restituisce la preda che gli si affida. I coccodrilli faranno sparire ogni traccia.»

      «Quando un Faraone salva, non sopprime l’essere che ha strappato alla morte. Se è vero che sono un Figlio del Sole quella giovane donna vivrà.»

      «Ecco che parla il sangue di suo padre,» disse Ounis, guardandolo con ammirazione. «Tu hai ragione, Mirinri. Quella fanciulla, chiunque sia, ha tratto da un grave pericolo il futuro re dell’Egitto e per noi è sacra.»

      Ata, come era sua abitudine, scosse il capo e non rispose subito. Dopo però alcuni istanti di silenzio riprese:

      «Non siamo ancora a Menfi. Quegli uomini ci avevano teso un agguato e non ci lascieranno scendere tranquillamente il Nilo. È Pepi che li ha mandati. Egli ha sospettato che tu, mio signore, non eri morto.»

      Poi, volgendosi improvvisamente verso la maliarda, le chiese:

      «Tu conoscevi quegli uomini?»

      «Sì» rispose Nefer.»

      «Perché hanno scelto quel luogo per ubbriacarsi e festeggiare Bast?»

      «Non lo so.»

      «Chi sono costoro?»

      «Battellieri e pescatori ma…»

      «Continua.»

      «Ho notato fra di loro delle persone che non ho mai veduto nelle borgate bagnate dal Nilo.»

      «Gente venuta da Menfi?»

      «Lo sospetto,» rispose la maliarda.

      «Tu conosci questi luoghi?

      «Da parecchi anni erro di villaggio in villaggio, predicando la buona e la cattiva ventura perché io so leggere nel futuro. Mia madre era una famosa indovina.»

      Mirinri si fece innanzi.

      «Come hai potuto tu sospettare che io sia un Faraone?»

      «Quando ti ho veduto, mio signore, mi sono subito sentita correre un fremito strano per le vene, quel fremito che io ho provato quando predissi la sorte alla principessa che un mese fa salì il Nilo.»

      «Come!» esclamò Mirinri, che ebbe un rapido sussulto. «Tu hai veduto quella principessa?»

      «Sì, mio signore.»

      «E le hai predetta la sorte?»

      Nefer fece col capo un cenno affermativo.

      «Che cosa le hai detto?» chiese Ounis con voce alterata.

      La maliarda esitò un istante, poi, vedendo che Mirinri la fissava con uno sguardo imperioso, disse:

      «Che un grande disastro minacciava suo padre, e che questo disastro avrebbe, in un tempo non lontano, travolta la sua potenza e offuscata per sempre la sua gloria.»

      «Vuoi predire anche a me la mia sorte?» chiese il giovane Faraone.

      «Sì, ma non ora,» rispose Nefer. «Bisogna che aspetti lo spuntare del sole perché tu sei un Figlio del Sole e non già delle tenebre. In quel momento l’anima del grande Osiride vibrerà nel mio cervello e la profezia sarà più sicura, perché ispirata da lui.»

      «Aspetterò,» disse Mirinri, «quantunque io creda poco alle tue profezie.»

      «Eppure, mio signore, ti ho dato poco fa la prova che io difficilmente m’inganno. Solo io ho riconosciuto in te un essere divino e me ne sono accorta appena ti vidi dinanzi a me.»

      «Forse tu lo avevi saputo prima.»

      «In quale modo, mio signore, e da chi?»

      «Dai bevitori.»

      «Io non ho mai udito parlare da loro che aspettassero un Faraone.»

      «Loro, forse no; quelli che tu sospetti giunti da Menfi, sì; dovevano saperlo od almeno sospettare che su questa barca si trovava il figlio di un grande Faraone,» disse Ata. «La festa non doveva essere che un pretesto per nascondere un agguato e uccidere il futuro Figlio del Sole.»

      «Io non ho parlato con loro, quindi non potevo sapere nulla.»

      «E perché ti volevano uccidere?» chiese Ounis.

      «Per vendicare la morte d’un giovane pescatore che era stato mio fidanzato e che, per appagare la mia smania di ricchezza, si era recato nel tempio di Kantapek a raccogliervi l’oro colà nascosto.»

      «Che istoria ci narri tu?» chiese Ata, guardandola con diffidenza.

      Nefer stava per rispondere, quando delle grida di stupore e anche di terrore s’alzarono fra gli etiopi che stavano tagliando l’ultimo tratto del sett.

      «Tornano i beoni?» chiese Ata, slanciandosi verso prora.

      «Guardate, padrone, guardate!» gridavano gli etiopi.

      «Dove? Non vedo nessuno sulla riva,» rispose Ata.

      «Là, in alto.»

      Tutti alzarono gli occhi e con loro grande stupore scorsero volteggiare al di sopra delle palme, che coprivano la riva del Nilo, un numero infinito di punti luminosi che avevano dei riflessi azzurrognoli e che pareva si dirigessero verso il veliero.

      «Che cosa sono?» chiese Mirinri. «Delle stelle?»

      «Sì, delle stelle che portano fuoco alla nostra nave se non fuggiamo,» rispose Ata. «Quei miserabili non hanno avuto il coraggio di assalire un Faraone, ma si servono dei volatili.»

      Si volse verso gli etiopi, che avevano sospeso il lavoro e che guardavano con ispavento quella falange immensa di punti luminosi, che s’accostava con rapidità prodigiosa.

      «Quanto manca perché il passo sia libero?» chiese.

      «Fra cinque minuti la massa erbosa sarà tagliata,» rispose uno per tutti.

      «Affrettatevi se vi è cara la vita. Questo pericolo è forse peggiore dell’altro. Sei uomini a bordo per spiegare le vele. Il vento è favorevole e la corrente è forte al di là della barra.»

      Poi, tornando verso Ounis e Mirinri, aggiunse:

      «Prendete gli archi e non risparmiate le freccie. Fra pochi minuti saremo avvolti in una rete di fuoco. Che il grande Osiride protegga il futuro re dell’Egitto.»

      CAPITOLO OTTAVO. I piccioni incendiarii

      L’uso dei piccioni viaggiatori in guerra e anche come rapidi ausiliari del servizio postale, risale alla più remota antichità e gli egizi sembra che siano stati i primi a servirsi di quei gentili messaggeri, come furono pure quelli che più lungamente degli altri popoli li adoperarono.

      Li ammaestravano sopratutto per la guerra, onde ardere le città che resistevano troppo ai loro assalti, facendo di essi degli uccelli incendiarii. Possessori di materie ardenti, che non si spegnevano nemmeno coll’acqua e che dovevano essere forse simili ai famosi fuochi greci di cui fu perduto per sempre il segreto, usavano