Emilio Salgari

Le figlie dei faraoni


Скачать книгу

giovane Faraone lanciò intorno a sé uno sguardo corrucciato e strinse l’ascia come se si preparasse a tener fronte alla bufera che lo minacciava, poi prese per mano la maliarda e la trasse via, dicendo:

      «Sulla mia barca nessuno più ti minaccerà.»

      L’orda degli ubriachi, rimessasi dalla sorpresa, sbucava dietro i tronchi dei palmizi, urlando ferocemente:

      «A morte gli stranieri! Immoliamoli sull’altare di Bast!»

      Non erano più inermi, come quando bevevano e danzavano attorno ai vasi monumentali che racchiudevano il vino di palma. Avevano archi, lancie, sbarre di bronzo per parare i colpi di spada, somiglianti ai frangispada usati nel Medioevo, pugnali di rame ad un solo taglio, simili alle seramasasce dei Merovingi, ascie di bronzo, poi picche che terminavano verso la cima in una specie di falce e coltellacci ricurvi dalla lama larghissima. Alcuni avevano persino indossate delle cotte di grosso filo, cosparse di laminelle di metallo, sufficienti a ripararli dalle frecce.

      Resi arditi dal troppo vino bevuto e anche dal numero, s’avanzavano audacemente, ululando come lupi affamati ed imprecando, risoluti ad impedire ai naviganti di riattraversare il sett e di mettersi in salvo sul veliero.

      Ata, vedendo che stavano per sbarrare il passo, trasse di sotto la fascia un sab, ossia una specie di flauto obliquo e vi soffiò dentro con forza, traendo alcune note acutissime, stridenti, che si potevano udite anche dall’altra parte del Nilo.

      Tosto si videro gli etiopi, che stavano tagliando le erbe galleggianti, interrompere il lavoro e balzare come una legione di demoni attraverso quell’enorme agglomeramento di papiri e di loti, facendo roteare al di sopra delle loro teste le pesanti ascie di bronzo.

      «Presto,» gridò Ata. «Di corsa!»

      Mirinri, tenendo sempre per mano la maliarda, la quale d’altronde non sembrava affatto spaventata per la rabbia feroce che si era impossessata degli ubriachi, con due colpi d’ascia atterrò due uomini che gli avevano puntato contro due lancie, poi in pochi slanci raggiunse la riva del fiume, mentre i quattro etiopi di scorta, Ounis e Ata coprivano la ritirata, tenendo a distanza gli assalitori.

      Il sacerdote specialmente, quantunque vecchio, lottava con una gagliardia che destava stupore in tutti. Pareva che in tutta la sua vita invece di far echeggiare il sistro nelle feste religiose, non avesse fatto altro che maneggiare le armi.

      Cogli occhi in fiamme, il viso animato da una collera intensa, adoperava la pesante ascia meglio d’un guerriero, ribattendo, con un’abilità straordinaria, i colpi che gli venivano dati.

      «Sàlvati, Mirinri!» gridava. «Basto io per questa canaglia!»

      Sarebbe stato però indubbiamente oppresso, assieme ai suoi compagni, se i marinai del veliero non fossero giunti in buon punto a toglierlo dalle strette degli ubriachi, che erano diventati più furiosi che mai.

      Quei colossi dell’alto Egitto, temuti dagli stessi Faraoni, i quali dovevano molti secoli dopo provarne il valore e cedere loro il trono, con una mossa fulminea coprirono Mirinri ed i suoi compagni, scagliandosi poi addosso agli assalitori con formidabili urla selvagge e massacrando senza misericordia i più vicini.

      Le ascie, maneggiate da quegli atleti, spaccavano alla lettera in due le persone che non erano leste a fuggire o producevano delle ferite spaventevoli, da non lasciare alcuna speranza di guarigione. Bastarono due cariche per respingere gli ubriachi verso i palmizi, sotto le cui larghe foglie gridavano spaventate le suonatrici e le danzatrici.

      Mirinri, vedendo che Ata ed Ounis non correvano ormai più alcun pericolo, si slanciò sul sett, assieme alla maliarda e, camminando con precauzione, onde non affondare improvvisamente attraverso quelle masse di vegetali, arrivò felicemente sotto il piccolo veliero.

      Gli etiopi giungevano correndo, spingendo innanzi a loro Ata e Ounis, poiché quegli ostinati ubbriaconi tornavano alla riscossa, saettandoli con nembi di freccie e lanciando certe corte lancie di rame, munite d’una punta aguzza, con un arpione da un lato.

      «Tutti a bordo!» gridò Mirinri, aiutando la fanciulla a issarsi sulla scala di canapa che pendeva lungo il fianco della navicella.

      Gli etiopi, che non erano più in grado di far fronte agli assalitori, i quali pareva che fossero aumentati di numero, non si fecero ripetere l’ordine. Aggrappandosi ai bordi ed ai cordami, in un istante si trovarono radunati sulla coperta.

      «Preparate la difesa,» disse Ata. «Qui gli scudi e gli archi. Avremo da fare non poco a calmare quei furibondi.»

      «Credi che ci assalgano?» chiese Mirinri.

      «Non ci lascieranno tranquilli, mio signore,» rispose l’egiziano. «Hanno bevuto troppo ed il vino è salito ai loro cervelli. Dovevi lasciare che uccidessero quella fanciulla che noi non conosciamo. Tu hai commesso una imprudenza che forse pagheremo cara.»

      «Se è vero che io sono un Faraone, mio primo dovere è quello di soccorrere i deboli e di proteggere i miei futuri sudditi,» rispose Mirinri con fierezza. «Mio padre, al mio posto, avrebbe fatto altrettanto.»

      «È vero,» disse Ounis. «Io ammiro il tuo coraggio e la tua saggezza, Figlio del Sole. Giammai sono stato orgoglioso di te come oggi. Un giorno hai strappato, dalle mascelle d’un ingordo coccodrillo, una principessa; ora hai salvato una povera fanciulla a te sconosciuta. Ecco la vera generosità d’un vero Faraone. Tu sarai grande come tuo padre!»

      «Ma quegli uomini possono spegnere il futuro re dell’Egitto,»rispose Ata. «Siamo immobilizzati fra le erbe e abbiamo dinanzi un nemico dieci volte più numeroso.»

      «Mio padre non ha contato le orde caldee quando le ha rigettate nel mar Rosso,» disse Mirinri. «Io, che ho nelle mie vene il sangue del grande guerriero, non conterò costoro. Uno scudo ed una spada! Presto, etiopi: ecco il nemico!»

      Gli ubriachi, che parevano in preda ad un vero delirio battagliero, si erano già gettati sul sett, incoraggiandosi con clamori che non avevano più nulla di umano ed agitando forsennatamente le armi.

      Si erano improvvisamente trasformati in guerrieri perché la maggior parte di essi eransi muniti di grandi scudi di varie forme, alcuni quadrati, altri ovali con pitture azzurre, ed altri ancora assai allungati e dentellati nelle parti inferiori e superiori; per di più quasi tutti avevano riparato il capo con una specie di berretto di cuoio, che aveva due intagli, per lasciar libere le orecchie.

      Gli etiopi, che non parevano affatto spaventati, essendo quelle genti dell’Alto Nilo d’un coraggio a tutta prova, avevano portato sul ponte fasci d’armi e sopratutto molti archi, alcuni con una sola curva ed altri a due, con in mezzo un pezzo di legno per proteggere le dita dallo scatto della corda, e si erano allineati dietro ai bordi, colle faretre piene di freccie dalla punta larga e mobile.

      I bevitori si erano arrestati sulla riva del Nilo, come se fossero indecisi sul da farsi o cercassero di rendersi un conto esatto delle forze di cui disponeva il veliero, prima di tentare un attacco.

      «Che non si decidano dunque?» chiese Mirinri, che pareva impaziente di provare l’emozione d’una formidabile lotta.

      «Aspetteranno che i loro cervelli si snebbino un poco,» rispose Ata.

      «Se ne approfittassimo intanto per aprire il canale?» chiese Ounis.

      «Manca molto a raggiungere le acque libere?» domandò Ata, volgendosi verso gli etiopi.

      «In un’ora di lavoro si potrebbe attraversare la massa erbosa che ancora ci separa,» rispose uno degli etiopi.

      «Che quindici uomini scendano. Gli altri rimangano a bordo per difenderli,» disse Mirinri. «Affondati fra le erbe non correranno molto pericolo.»

      «Obbedite a questo giovane che è il comandante,» disse Ata ai battellieri.

      Mentre l’ordine veniva eseguito, parecchi bevitori si erano gettati sul sett, coprendosi coi loro grandi scudi di cuoio e lanciando qualche freccia, per accertarsi della forza dei loro archi.

      Giunti a duecento passi dal veliero si arrestarono, affondando le gambe nella massa erbosa, poi uno di loro gridò con voce poderosa:

      «Che gli stranieri dell’Alto Nilo m’ascoltino,