Emilio Salgari

Le figlie dei faraoni


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avrò conquistato il trono tu sarai il mio primo ministro ed il capo supremo dei sacerdoti, mio devoto amico. La mia potenza non oscurerà la riconoscenza che ti devo.»

      «Non desidero né onori, né grandezze,» rispose Ounis. «D’altronde, quando tu sarai re, io non ne avrò bisogno.»

      «Perché Ounis?» chiese Mirinri sorpreso da quella frase oscura.

      «Tutto non ti ho ancora narrato. Mi resta da fare al Figlio del Sole una rivelazione ancora, ma non la farò se non quando tu siederai sul trono dei Faraoni. Ora ci resta qualche cosa d’altro da compiere, prima di lasciare questa piramide che non rivedrai mai più da vivo.»

      «Quale?»

      «Distruggere il cadavere che l’usurpatore ha messo al posto di tuo padre. Quell’ignoto, ch’è forse un miserabile schiavo, non deve occupare un posto che spetta a Teti, né oltraggiare col suo corpo impuro la tomba dei Figli del Sole. Vieni, Mirinri.»

      «Quell’infamia la sconterà,» disse il giovane, che ebbe un fremito di collera. «Non bastava a Pepi carpire a mio padre il regno: gli occorreva anche questa crudele derisione. Io farò a pezzi l’uomo che rappresenta in questo sepolcreto il corpo del Faraone, così non passerà l’Amenti e non prenderà un posto che non gli spetta fra gli antenati luminosi.»

      Il sacerdote diede all’ingiro un lungo sguardo, poi si diresse verso una delle pareti dove entro un incavo si scorgeva a brillare vagamente qualche cosa.

      «Qui lo hanno collocato» disse.

      Un feretro stava deposto in quell’escavazione, un po’ al di sopra d’una lastra di marmo nero, su cui s’ammonticchiavano corone di trifoglio, di loto bianco ed azzurro, accanto a piccoli mucchi di grano e di farina, a pezzi di carne disseccata ed a fiale contenenti latte, liquori e profumi.

      Quella bara era d’una ricchezza straordinaria, costruita con legname di quercia arabica, adorna di sculture finissime, che volevano rappresentare la grande vittoria riportata da Teti contro le orde Caldee, tutta dipinta, dorata ed incrostata di perle preziose.

      Verso l’estremità superiore, quel feretro terminava in una testa che doveva riprodurre esattamente i lineamenti dell’uomo che vi stava rinchiuso dentro.

      Mirinri gettò via con dispetto i fiori e le offerte, salì sulla tavola di pietra e prese fra le sue robuste braccia la salma, deponendola al suolo.

      «Questa testa rassomiglia a quella di mio padre?» chiese con viva emozione.

      «Sì,» rispose Ounis.

      «E questi occhi sono proprio i suoi?»

      «Li hanno riprodotti esattamente.»

      Mirinri guardò il vecchio, poi la testa, quindi tornò a guardare il sacerdote, facendo un gesto di stupore.

      «Che cos’hai ora?» chiese Ounis aggrottando la fronte.

      «Trovo una strana somiglianza fra i tratti di questo viso ed i tuoi. Anche gli occhi hanno il medesimo lampo cupo.»

      «Vi sono tanti che si assomigliano,» rispose asciuttamente il sacerdote. «Apri il feretro: voglio vedere chi vi hanno messo dentro.»

      Mirinri introdusse la punta della spada fra le commessure e con uno sforzo violento sollevò il coperchio.

      Tosto apparve una mummia, rappresentante un uomo di alta statura, col viso solcato da due lunghe ferite malamente cucite e che lo rendevano irriconoscibile.

      Tutto il corpo era strettamente avviluppato in un tessuto d’oro, con ricami formati da pietre preziose, per lo più smeraldi, e dorate aveva le unghie delle mani e dei piedi.

      «È mio padre, questi?» chiese Mirinri.

      «No.»

      «Ne sei ben certo, Ounis?»

      «L’ho conosciuto troppo bene, per potermi ingannare.»

      «Va bene,» rispose Mirinri.

      Levò la mummia, che gettò con disprezzo al suolo, rinchiuse la bara e la ricollocò nel vano scavato nella parete della piramide, dicendo con voce ironica:

      «Servirà a qualche altro: l’usurpatore appartiene alla famiglia ed ha il diritto di dormire qui dentro. Prenderà il posto di questo miserabile schiavo od ignoto guerriero che sia.»

      Poi afferrò la mummia, facendola crepitare fra le proprie dita, tanta era la sua collera e, volgendosi verso il sacerdote, disse con tono che non ammetteva replica:

      «Usciamo!»

      «Che cosa ne vuoi fare di quel morto?» chiese Ounis.

      «Usciamo,» ripetè il giovane.

      Attraversò la piramide, finché raggiunse la porta di bronzo che era rimasta aperta. Ounis la chiuse con quella chiave in forma di serpente e si trovarono entrambi in mezzo ai raggi ardenti del sole.

      «Nessuno può entrare ora?» chiese Mirinri, che teneva sempre la mummia.

      «Nessuno, fuorché Mirinri Pepi, il solo che possegga una chiave eguale a questa.»

      «Questa tomba non si aprirà che per ricevere la salma dell’usurpatore,» disse Mirinri, con voce cupa. «Lo giuro su Sib, il dio che rappresenta la terra; su Nout che rappresenta il cielo; su Nou il dio delle acque; su Râ che è il sole; sul grande Osiride e su Iside, l’animale sacro che il mio futuro popolo adora. Che Nacus, l’impuro demonio della morte mi tragga nel regno delle tenebre; che mi sia negato il passaggio dell’Amenti e la pace eterna nella regione nascosta, se io mancherò alle mie promesse. Ounis, tu che sei sacerdote, mi hai udito. Ed ora, vile carcame, che hai osato prendere il posto di mio padre, il grande guerriero che salvò l’Egitto, va’! Troverai una bara nelle viscere immonde delle jene e degli sciacalli.»

      Ciò detto sollevò in alto e con quanta forza aveva, scagliò là mummia in mezzo alle dune, dove rimase colle gambe in aria.

      «Quando potremo partire?» chiese poscia il giovane. «Ora che so di essere veramente il figlio di Teti, sono impaziente di conquistare l’orgogliosa Menfi.»

      «Adagio, Mirinri,» rispose il sacerdote. «Noi dobbiamo recarci colà con infinite precauzioni, e affiatarci segretamente coi vecchi amici di tuo padre. Se tu venissi scoperto prima di essere tanto potente da fronteggiarlo, Mirinri Pepi non ti risparmierebbe.»

      «Dovrò dunque rimanere ancor a lungo in questo deserto e lasciar spegnere l’entusiasmo che mi divora?»

      «Non ti chiedo che tre o quattro giorni. Torniamo alla nostra dimora.»

      La sera dello stesso giorno, Ounis, approfittando del sonno profondo del giovane Faraone, lanciava nel Nilo, con grande spavento dei coccodrilli e degli ippopotami che erano numerosissimi in quei tempi, delle piccole palle fiammeggianti che bruciavano anche in acqua, come i famosi fuochi greci dei quali fu perduto il segreto.

      «Gli amici che vegliano sapranno così che Mirinri è pronto,» disse. «Aspettiamoli e che Osiride protegga il nuovo Figlio del Sole.»

      CAPITOLO QUINTO. Alla conquista d’un trono

      Tre giorni dopo, verso il tramonto, un piccolo veliero, che rassomigliava molto alle dahabiad che si usano ancora oggidì sul Nilo, e che, al pari di quelle antiche, hanno gli alberi formati di vari pezzi e uniti con pelli di bue applicati ancora fresche e lasciate poi a disseccare, approdava nel luogo istesso dove Mirinri aveva scoperto il simbolo di vita e di morte.

      Aveva la carena piuttosto larga e robusta, la prora arrotondata, con qualche ornamento d’oro sulla polena rappresentante un ibis colle ali spiegate, e due immense vele di lino bianco, simili nel taglio a quelle latine, ma colle punte più slanciate.

      La montavano due dozzine e più di etiopi, uomini dalla pelle assai nera, e di forme erculee, che mostravano nude, non avendo che una larga fascia attortigliata intorno ai fianchi coi due capi pendenti fra le gambe che giungevano quasi fino a terra. Era d’altronde quello il costume usato dal popolo ed era più che sufficiente, sotto quel clima sempre caldo anche durante i mesi invernali.

      Un uomo che portava due grembiuli di cotone azzurro,