Emilio Salgari

Le figlie dei faraoni


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numero d’istrumenti. Per lo più erano flauti, trombe di bronzo dorato, non così smisurate come quelle che figurano nell’Aida, anzi cortissime; ma dal suono potente, di una grande varietà di corni di bue, tagliati a becco presso l’imboccatura e che chiamavano comunemente tan; parecchie specie di arpe, per lo più altissime e di forme massiccie, delle trigone, dei sistri e anche certe specie di chitarre, colla cassa piccola ed il manico invece lunghissimo.

      Intanto le danzatrici intrecciavano balli sulla riva del fiume, fra le risa, gli applausi e le urla degli ubriachi.

      Mirinri, Ata e Ounis, invitati cortesemente a prendere parte alla festa, si erano seduti intorno ad una grossa anfora messa a loro disposizione, sorseggiando il vino di palma che veniva offerto da uno schiavo etiope.

      Nessuno d’altronde aveva più fatto attenzione a loro. Tutta quella gente allegra si era rovesciata addosso alle danzatrici o raccolta intorno alle suonatrici.

      «Osservi nulla di sospetto qui?» chiese Ounis, rivolgendosi verso Ata che non pareva ancora rassicurato.

      «Io non vedo altro che della gente che ha un solo desiderio: quello di divertirsi e di ubbriacarsi,» disse Mirinri.

      «Eppure non sono ancora tranquillo, mio signore,» rispose Ata, dopo un breve silenzio.

      «Perché questi uomini hanno scelto questo luogo per la loro festa, proprio qui dove ci hanno chiuso il passaggio? Questo io vorrei spiegare.»

      «Li ha radunati qui il caso, suppongo,» disse Ounis.

      Ata crollò il capo, poi riprese:

      «Non vedo chiaro in tuttociò e faremo bene ad allontanarci, non appena il canale sarà aperto. Finché non saremo giunti a Menfi, non sarò mai tranquillo.»

      «È non sarà invece maggiore là il pericolo?» chiese Mirinri.

      «Vi sono molti amici laggiù i quali sono fedeli ed hanno preparato per te, mio signore, un rifugio sicuro ed inviolabile. Beviamo e poi andiamocene. Noi abbiamo reso l’omaggio dovuto a Bast, quindi non ci tratterranno, se è vero che questi uomini non si occupano altro che di divertirsi.»

      Vuotarono qualche tazza ancora, poi si alzarono. Stavano per avviarsi verso la riva, quando delle grida di donna, seguite tosto da urla feroci, li arrestarono di colpo.

      Al di là del circolo formato dalle danzatrici, degli uomini si agitavano imprecando, mentre una voce femminile ripeteva con voce singhiozzante:

      «Lasciatemi, vili!»

      «La maliarda! La maliarda!» si rispondeva da tutte le parti. «Confessa dove lo hanno acciecato! Vogliamo sapere dov’è il tesoro!»

      «Che cosa succede?» chiese Mirinri, guardando Ata.

      «Non lo so,» rispose questi.

      Le grida della donna continuavano a echeggiare, mentre gli ubriachi che parevano fossero diventati improvvisamente furiosi, accorrevano da tutte le parti, imprecando e minacciando.

      Le danzatrici e le suonatrici, spaventate, scappavano, abbandonando queste ultime i loro strumenti musicali che venivano calpestati senza misericordia dai bevitori.

      Ad un tratto, in mezzo a quel tumulto che diventava spaventevole, si udì una voce tuonante a gridare:

      «Acciechiamola e vendichiamo il povero Nufer!»

      «Sì, sì, bruciamole gli occhi!» urlarono cento voci. «Arrossate un ferro! Ci dirà meglio la buona fortuna!»

      «E c’indicherà dov’è il tesoro!» riprese la voce di prima.

      Udendo quelle parole, Mirinri aveva fatto un balzo, strappando ad uno degli etiopi l’ascia di bronzo. Il suo braccio vigoroso alzò l’arma pesantissima come se fosse un semplice fuscello e prima che Ata ed Ounis avessero avuto il tempo di trattenerlo, si era scagliato con impeto irresistibile fra gli ubriachi, tuonando:

      «Fermi, miserabili! Fermi o vi uccido tutti!»

      «Mirinri!» aveva gridato Ounis.

      Il giovane non udiva più la voce dell’uomo che lo aveva allevato e che gli era come un secondo padre.

      Colla sinistra rovesciava con forza erculea i bevitori, mentre colla destra faceva volteggiare in aria l’ascia minacciando di lasciarla cadere sulle teste di quei bruti.

      Intanto in mezzo alla folla una voce di donna, strillante, energica, gridava:

      «Bacino di fuoco! Anima dei boschi! Faro delle tenebre! Spirito della notte! Apri a me e maledici tutti questi infami! Ampê, Miripê, Ma, Tehibo Wouwore, tutti v’invoco!

      «Seguiamolo!» aveva detto rapidamente Ata, rivolgendosi verso gli etiopi. «Mano alle armi e se oppongono resistenza non risparmiate nessuno.»

      «Un’arma!» chiese imperiosamente Ounis. «Il mio braccio è ancora robusto.»

      Ata si tolse dalla cintola uno dei due pugnali di rame, dalla lama assai larga ed affilata e glielo porse.

      «Venite!» comandò poi.

      Mirinri s’apriva il passo fra la folla. Pareva un ercole o meglio un leone furibondo.

      «Largo!» tuonava senza posa. «Guai a chi tocca quella donna!»

      Gli etiopi si erano già slanciati in suo aiuto. Quegli uomini, di forme robuste, dalla muscolatura potente, dovevano avere facile ragione sui battellieri e sui pescatori egizi, che male si reggevano sulle gambe dopo tanto vino bevuto.

      Con una spinta formidabile penetrarono come un cuneo in mezzo alla folla, che già, passato il primo istante di stupore, cercava di rinserrare in mezzo il giovane e d’impedirgli di raggiungere la fanciulla, che continuava ad invocare il toro delle tenebre, il bacino di fuoco e tutte le divinità infernali in suo aiuto.

      L’urto dei poderosi etiopi riuscì finalmente a sgominare quell’orda ubbriaca ed a respingerla contro i palmizi che circondavano lo spiazzo.

      Mirinri potè così raggiungere la donna, che era stata lasciata sola.

      Era una bellissima giovane, di forme splendide, con una lunga capigliatura nera, che portava sciolta sulle spalle invece di tenerla raccolta od intrecciata come le donne del basso Egitto, cogli occhi scintillanti d’un fuoco strano e penetranti come punte di spade.

      I suoi lineamenti erano d’una purezza meravigliosa e la sua pelle aveva una tinta strana, paragonabile solo al bronzo dorato, con delle indefinibili sfumature rossastre, del più straordinario effetto.

      Il petto era coperto da conche di metallo dorato; ai fianchi invece aveva una larga fascia a varie tinte, ricamata in argento, annodata dinanzi e coi capi cadenti fino al suolo. Al di sotto portava una kalasiris corta, a righe bianche, rosse ed azzurre, formata da tre pezzi con quello di mezzo terminante in una punta che scendevale fino al ginocchio.

      Le gambe invece erano nude, adorne però di un gran numero di anelli d’oro squisitamente cesellati e con grossi smeraldi incastonati.

      Anche ai polsi aveva dei monili ricchissimi e sul petto le cadeva una collana formata da turchesi che anche una Faraona le avrebbe invidiata.

      «Chi sei tu?» chiese Mirinri colpito dall’affascinante bellezza di quella giovane e sopratutto dal fuoco intenso che le brillava nelle pupille nerissime.

      «Nefer la maliarda,» rispose la giovane dardeggiando sul Faraone uno sguardo penetrante.

      «Perché quei miserabili ti volevano uccidere?»

      «Perché io leggo il futuro e volevano che additassi loro il tesoro del tempio di Kantapek.»

      «Perché sei venuta qui?»

      «Vado ove scintilla l’allegria.»

      «Vuoi seguirmi?»

      «Dove?»

      «Sulla mia barca. Se rimani, questi ubriachi ti uccideranno.»

      Un rapido lampo brillò nelle pupille profonde della maliarda e sul suo corpo parve passasse un fremito.

      «Tu sei bello e valoroso,» disse poi, «ed io amo i belli ed i forti. Ti devo la vita.»

      «Mirinri,