Emilio Salgari

Le figlie dei faraoni


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mandando un grido di meraviglia.

      «Quanto oro!» esclamò.

      «Si dice che vi siano lì dentro dodici milioni di talenti()» disse Ounis, «ma non è tutto. Le zampe sono piene di smeraldi e di altre pietre preziose, dalle quali, se tu ne avrai bisogno, potrai ricavare molti altri milioni! Credi tu con queste ricchezze di poter armare un poderoso esercito?»

      «Sì,» disse Mirinri. «Ma, come mio padre ha potuto sapere che in questo sepolcreto si trovava nascosto un tesoro così favoloso?»

      «Da un antichissimo papiro, da lui scoperto nella biblioteca dei primi Faraoni.»

      «E non confidò a nessuno il segreto?»

      «A me solo.»

      «E le hai serbate per me queste ricchezze?»

      «Sì, perché a te solo appartenevano. Appena noi saremo partiti vi sarà chi s’incaricherà di trasportare una parte di questo tesoro a Menfi.»

      «E chi, se nessuno ne conosce l’esistenza?»

      «Degli amici devoti, rimasti fedeli a tuo padre ed al suo successore. Domani saranno informati che la profezia si è avverata e che tu sei pronto a conquistare il trono e punire l’infame usurpatore.»

      «Dunque qualcuno viene allora qui.»

      «Sì, e mi sono ben guardato di fartelo vedere. D’altronde non veniva che di notte, quando tu dormivi e ripartiva allo spuntare del giorno. Ora giura su Toth, il dio ibis, che tu t’impegni di liberare la patria dall’usurpatore.»

      «Le prove che io sia realmente un Faraone tu non me le hai ancora date,» disse Mirinri.

      «È vero: torniamo nella caverna e partiamo subito. È molto tardi e la statua di Memnone non suona che allo spuntare del sole.»

      Rifecero in silenzio il cammino percorso, ripassarono per la galleria dei gatti e uscirono, strisciando attraverso la sfinge che occupava l’estremità della caverna.

      Ounis prese un’anfora di terracotta ed empì due vasi di vetro grossolano d’una specie di birra molto dolce, che secondo la tradizione, Osiride l’aveva donata ai mortali nel medesimo tempo del vino di palma ed invitò il giovane a bere, dicendo:

      «Che l’impuro demonio della morte tocchi chi mancherà al giuramento.»

      Poi prese in un canto due corte spade di bronzo, molto larghe e molto pesanti e ne diede una a Mirinri.

      «Partiamo,» disse. «La notte è a metà cammino.»

      CAPITOLO TERZO. Il sangue dei Faraoni

      Chiusa l’entrata della caverna con una lastra di pietra affinché durante la loro assenza qualche animale feroce non ne prendesse possesso, essendo in quelle lontane epoche molto popolato l’Egitto di leoni e di jene, il sacerdote ed il giovane si erano messi in marcia, tenendosi l’uno presso l’altro e volgendo le spalle al Nilo.

      Il deserto, che più tardi gli Egiziani dovevano, con pene infinite, rendere fertile, stava dinanzi a loro, stendendosi verso levante. Veramente non era proprio un deserto, simile a quello libico od al Sahara, assolutamente arido e privo di vegetazione; si poteva chiamare una immensa pianura incolta, che dalle rive del Nilo si spingeva fino alle rive del mar Rosso.

      Infatti qua e là si scorgevano dei gruppi di palme dum, chiamate alberi del pan pepato e che acquistano rapidamente uno sviluppo straordinario, anche sui terreni sterili, e qualche palma deleb dal fusto rigonfio nel mezzo e che è amante piuttosto della solitudine, non formando mai delle selve.

      Degli sciacalli urlavano in lontananza e fuggivano, rapidi come saette, all’accostarsi dei due uomini, mentre delle jene sghignazzavano in mezzo alle dune sabbiose, senza osare mostrarsi, non godendo nemmeno a quei tempi maggior coraggio di quello che hanno anche oggidì.

      La notte era splendida e tranquilla, regnando nelle pianure egiziane una calma assoluta. La luna splendeva sempre al di sopra delle foreste costeggianti il Nilo, allungando smisuratamente le ombre dei due uomini, e la cometa scintillava vivissima fra le stelle, avanzandosi su un cielo purissimo, d’una trasparenza che solo si può ammirare in quelle regioni.

      Né Ounis, né Mirinri parlavano: parevano entrambi immersi in profondi pensieri.

      Solo il primo, di quando in quando, alzava gli occhi verso la cometa, fissandola intensamente. Il secondo sembrava invece che seguisse cogli sguardi qualche cosa che gli fuggiva dinanzi, forse la fanciulla che gli aveva fatto battere forte il cuore per la prima volta da che era nato.

      Avevano percorso già così parecchie miglia, sempre avanzandosi nel deserto, quando Ounis appoggiò famigliarmente una mano sulla spalla del giovane, chiedendogli a bruciapelo:

      «A che cosa pensi, Mirinri?»

      Il figlio dei Faraoni trasalì bruscamente, come se fosse stato improvvisamente destato da qualche dolce sogno, poi rispose, esitando: «Non so: a molte cose.»

      «Al potere sconfinato che tu raccoglierai in Menfi?»

      «Può darsi.»

      «O alla vendetta?»

      «Anche questo può essere vero.»

      «No: tu m’inganni. Io ti osservo da quando abbiamo lasciata la nostra dimora. Non è né il potere, né l’ambizione, né l’odio che turba il cervello ed il cuore del figlio del grande Teti, il fondatore della dinastia. «disse Ounis, con una certa amarezza.»

      «Che cosa ne sai tu?»

      «I tuoi occhi non hanno guardato nemmeno una volta la stella caudata che segna il tuo destino e il tuo cammino.»

      «È vero,» rispose Mirinri con un lungo sospiro.

      «Tu pensavi alla fanciulla che hai salvato dalla morte, sulle rive del Nilo.»

      «A che negarlo? Sì, Ounis, pensavo a lei.»

      «Ti ha dato dunque da bere qualche filtro misterioso, costei?»

      «No.»

      «Come puoi amarla così tanto da dimenticare la grandezza suprema, che tutti i mortali t’invidierebbero?»

      Mirinri rimase alcuni istanti silenzioso, poi volgendosi con uno scatto improvviso verso il sacerdote, che si era fermato e che lo guardava tristamente, gli disse:

      «Io non so se gli altri uomini siano eguali a me, perché in tanti anni io non ho veduto che le acque del Nilo, le grandi palme che lo circondano, le sconfinate dune di sabbia e le belve che le abitano. Io non ho udito fino ad oggi che la voce tua, quella del vento quando strappava le foglie piumate o torceva i rami, ed il mormorìo delle acque, colanti dai misteriosi laghi dell’interno. Come potevo io, giovane, rimanere insensibile ad un essere diverso da me e da te e che parlava una lingua armoniosa, più dolce del sussurrìo della brezza notturna? Tu mi dici che io l’amo. Non so veramente comprendere questa parola, io che sono vissuto sempre lontano dalle terre abitate e mai seppi che cosa possa significare. La malìa gettatami nel cuore da quella fanciulla potrà chiamarsi così. Io so che quando penso a lei mi vedo brillare sempre dinanzi, sia di giorno o di notte, quei grandi occhi neri ripieni d’una infinita tristezza e che provo entro di me una sensazione strana, che non saprei spiegarti e che prima non avevo mai sentito, né ascoltando il mormorìo delle acque, né i sibili del vento, né l’urlo delle fiere affamate vaganti pel deserto».

      «Una sensazione pericolosa, Mirinri, che potrebbe esserti fatale e fermarti nel tuo glorioso cammino. Toglie le forze ai guerrieri, addormenta i forti, spegne le energie e rende talvolta l’uomo perfino vile. Guardati! La tua grande impresa non ha bisogno di quel fremito.»

      «Rende perfino vili!» esclamò il giovane, colpito da quella parola.

      «Sì, vili.»

      «Ebbene guarda se io potrei diventarlo.»

      Si era voltato guardando le dune di sabbia che si estendevano dietro di loro, interrotte qua e là da qualche cespuglio intristito.

      Un’ombra gigantesca, che Ounis non aveva prima osservata, ma che non era invece sfuggita agli sguardi del giovane, era comparsa sulla cima d’uno di quei minuscoli monticelli