Emilio Salgari

Le figlie dei faraoni


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leone!» aveva esclamato il sacerdote, trasalendo.

      «È da qualche poco che ci spia.»

      «E non mi hai avvertito?»

      «Se è vero che io ho nelle vene il sangue dei guerrieri, perché dovevo preoccuparmi della sua presenza? Mio padre non sarebbe fuggito, lui che ha vinto, come mi hai narrato, le sterminate falangi dei Caldei.»

      «Che cosa intendi di dire e di fare?» chiese Ounis, guardandolo con ansietà.

      «Accertarmi se io sono veramente un Faraone, innanzi a tutto, e poi provarti che se anche quella fanciulla ha gettato una malìa su di me, non sarei capace di diventare un vile.»

      La corta spada di bronzo brillò nella destra del giovane.

      «A me, leone!» gridò. «Vedremo se sarà più forte il re del deserto od il futuro re dell’Egitto!»

      Come se la formidabile fiera avesse compresa la sfida gettatagli dall’audace giovane, aprì le fauci e fece rintronare le dune d’un ruggito poderoso, che parve un colpo di tuono.

      Ounis aveva afferrato con ambe le mani il braccio armato, dicendo:

      «No, tu non puoi esporti contro quella belva. Io sono vecchio e non ho alcuna missione da compiere al mondo, lascia quindi che l’affronti io se verrà ad assalirci. Non ho bisogno che tu mi dia una prova del tuo coraggio. Mi basta veder brillare nei tuoi occhi il lampo fiero che animava quelli del grande Teti.»

      Il giovane, con una brusca mossa, si svincolò e mosse intrepidamente verso la fiera, che ruggiva sordamente, sferzandosi i fianchi colla coda.

      «Quando un Faraone getta una sfida non retrocede!» gridò Mirinri. «Vince o muore! Il leone l’ha accettata: a noi due!»

      Il sacerdote non aveva più cercato di trattenerlo. D’altronde la belva, che doveva essere affamata, non avrebbe tardato ad assalirli egualmente.

      «Prode come suo padre,» mormorò il sacerdote che lo seguiva, tenendo in mano la spada e che lo guardava muovere diritto verso la fiera, con un misto d’angoscia e d’orgoglio. «L’avevo giudicato male: ha nelle vene il mio…»

      Si morse le labbra per non lasciarsi sfuggire il seguito di quelle parole, e allungò il passo onde porgere aiuto al giovane Faraone.

      Il leone che fino allora era rimasto accovacciato, vedendo avanzarsi la preda che credeva di abbattere con un solo colpo delle sue poderose zampe, si era alzato, scuotendo la sua folta criniera.

      Era un superbo animale, di taglia grossa e robusta, dal pelame fulvo e la criniera nerastra come quella dei leoni delle montagne dell’Atlante, che rappresentano oggidì la razza più bella di quei terribili carnivori.

      Mirinri, punto spaventato dall’aspetto imponente del suo avversario, né dai suoi ruggiti, che diventavano di momento in momento più possenti, muoveva avanti senza nemmeno guardarsi alle spalle, per vedere se era o no seguito da Ounis.

      I suoi occhi, che erano diventati ardenti, fissavano intrepidamente l’avversario, spiandone le più lievi mosse.

      Se Ounis era orgoglioso di vederlo così calmo e così audace, il bel giovane si sentiva del pari orgoglioso di non provare quel sentimento di paura che coglie tutti gli uomini, anche i più intrepidi, dinanzi a quei re dei deserti e delle foreste africane. Aveva dunque nelle vene il sangue degli antichi guerrieri? Era dunque proprio un Faraone? Sì, ormai ne era convinto, quantunque non avesse ancora udito a crepitare la statua colossale di Memnone, né avesse ancora veduto il fiore d’Osiride schiudere le sue corolle e rivivere, dopo tante migliaia e migliaia d’anni.

      Giunto a dieci passi dalla belva, tese l’arma e si arrestò, gridando: «Ti aspetto a piè fermo: assalimi! Vedremo se il grande Osiride proteggerà me, che discendo dagli dei o te ladrone del deserto.»

      Il leone lanciò un ultimo ruggito, poi scattò, mettendosi a correre attraverso le dune con balzi giganteschi. Volteggiava intorno ai due uomini, descrivendo un largo giro, che, a poco a poco, restringeva, cercando il momento opportuno per sorprenderli alle spalle.

      Mirinri, sempre freddo, sempre impassibile, ma col viso animato da una collera intensa, girava su se stesso mostrando sempre alla belva la lama della sua spada di bronzo, che i raggi della luna facevano scintillare vivamente.

      Ounis invece si era inginocchiato a breve distanza dal giovane tenendo la sua arma tesa in alto. Non perdeva di vista il suo compagno, occupandosi più di lui che del leone.

      Una profonda emozione alterava i suoi lineamenti. Vi era nell’espressione dei suoi occhi, che in quel momento brillavano non meno intensamente di quelli di Mirinri, lo stesso senso di prima: orgoglio, gioia e terrore.

      Si comprendeva che, quantunque paventasse che il giovane potesse essere vinto da quel formidabile avversario e ridotto un cadavere informe, dall’altro lato era superbo di vederlo così coraggioso e così pronto a sfidare il pericolo, e quale pericolo!

      Il leone continuava la sua corsa circolare. Scattava come se le sabbie fossero coperte da migliaia di molle invisibili e sembrava che le sue forze, invece di scemare, aumentassero sempre poiché i suoi slanci diventavano più impetuosi.

      Mirinri, fermo come una statua di bronzo, col braccio armato sempre teso, attendeva l’assalto. Un sorriso di sfida coronava le sue labbra sottili.

      Ad un tratto la belva, che non aveva cessato di stringere sempre più il cerchio, si precipitò sui due uomini, mandando nel medesimo tempo un ruggito spaventevole, che parve una fanfara di guerra udita in lontananza. Non scelse però il giovane come prima preda.

      Con un salto immenso era piombato sul sacerdote, cercando di fracassargli la spina dorsale o di aprirgli un fianco con un colpo di zampa. Aveva però prese male le sue misure, giacché gli cadde vicino, urtandolo solo con una spalla e rovesciandolo al suolo.

      Stava per rivoltarsi, onde mettere in opera le sue unghie, quando Mirinri gli fu addosso colla rapidità del lampo.

      Colla sinistra l’afferrò per la folta criniera, tenendolo per un istante fermo, poi coll’altra gl’immerse fino all’impugnatura la larga lama di bronzo, squarciandogli il petto.

      «Il giovane Faraone ti ha vinto!» gridò. «Sono più forte di te! L’Egitto sarà mio!»

      Non era ancora una vittoria completa. La belva, quantunque orribilmente ferita e tutta sanguinante, con uno scatto improvviso gli era sfuggita e si era accovacciata a dieci passi, ruggendogli in viso, pronta a ricominciare l’assalto.

      «Guardati, Mirinri!» gridò Ounis, con voce angosciata, rialzandosi prontamente.

      Il giovane parve che non l’avesse nemmeno udito.

      Cogli sguardi sempre sfavillanti, fissi in quelli della fiera, s’avanzava colla spada alzata, rossa di sangue fino alla guardia.

      «Bisogna che ti uccida,» disse.

      E si slanciò sul leone, che non osava più affrontare quel giovane avversario, che aveva dapprima disprezzato e che pareva lo magnetizzasse colla potenza dei suoi occhi.

      L’urto fu breve e terribile. Ounis vide per alcuni istanti sollevarsi intorno ai due combattenti come una nube di sabbia, che glieli nascose, poi si udì un ruggito soffocato ed un grido che gli parve di trionfo:

      «Muori!»

      Quando la sabbia finissima cadde al suolo, vide Mirinri ritto, colla fronte alta, la spada grondante sangue in pugno ed un piede posato sul corpo della belva, che sussultava ancora fra gli ultimi spasimi della morte.

      «Sì, mio…» gridò Ounis, «degno allievo! Sì, sei il figlio di Teti, il fondatore d’una dinastia che darà la gloria e la potenza alla terra dei Faraoni. Solo un uomo creato da lui avrebbe potuto compiere una simile impresa. Osiride ti protegge ormai e tutto puoi osare.»

      Mirinri si volse e dopo d’averlo guardato per qualche istante in silenzio, rispose:

      «Ora io non dubito più che l’anima dei Faraoni si sia trasfusa in me. Come io ho ucciso il re dei deserti, ucciderò l’usurpatore, che rapì a me ed a mio padre il trono. Vedi, Ounis, se si può essere audaci anche