Emilio Salgari

Le figlie dei faraoni


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che permette, secondo le nostre leggi, di regnare.»

      Successe un lungo silenzio. Mirinri era tornato a sedersi e pareva si fosse immerso in profondi pensieri. Il sacerdote, sempre in piedi, lo guardava fisso, come se cercasse d’indovinare ciò che passava attraverso il cervello del giovane.

      Ad un tratto, questi si alzò bruscamente, col viso trasfigurato, gli occhi animati da una collera terribile.

      «Mio padre è morto, è vero, Ounis?»

      «Sì, in esilio, sui margini del deserto libico, ove si era rifugiato per non cadere sotto i colpi dei sicari di Pepi. La sua condanna di morte era stata ormai pronunciata dall’usurpatore.»

      «Che cosa devo fare io, ora?»

      «Vendicarlo e riconquistare il trono che per diritto ti spetta.»

      «Solo, senza mezzi, senza un esercito?»

      «Non solo,» rispose il sacerdote. «Amici di tuo padre ve ne sono ancora a Menfi e aspettano per salutarti re. I mezzi, mi hai detto? Ebbene, vieni.»

      «Dove?»

      «Nelle tombe di Qobhou, l’ultimo Faraone della prima dinastia, che tuo padre aveva scoperto nei primi anni del suo regno, senza confidare ad alcuno il segreto. Là troverai ricchezze bastanti per conquistare l’intero Egitto ed altre terre ancora, se tu lo vorrai.»

      «Dove sono queste tombe?»

      «Più vicine di quello che tu creda. Seguimi, Mirinri.»

      Il vecchio prese una piccola lampada di terracotta, in forma d’anfora, riattizzò il lucignolo onde la fiamma si ravvivasse e s’avviò verso il fondo della caverna, dove scorgevasi una sfinge di marmo roseo di dimensioni gigantesche.

      «Sta qui il segreto dell’entrata,» disse.

      Fece scorrere una mano sul dorso della statua e subito la testa cadde, lasciando vedere un foro abbastanza lungo perché un uomo, anche corpulento, vi potesse entrare senza troppa fatica. Da quell’apertura sfuggì una corrente d’aria quasi calda impregnata d’un tanfo poco piacevole.

      «Dobbiamo entrare lì?» chiese Mirinri.

      «Sì.»

      «Perché non mi hai mai detto che esisteva un passaggio in questa caverna.?»

      «Io avevo giurato solennemente a tuo padre di non rivelartelo, se non quando tu avessi compiti i diciott’anni. Vieni: nessun pericolo ci minaccia e vedrai delle cose che ti faranno stupire.»

      S’introdusse nel foro, avanzandosi carponi e tenendo la lampada dinanzi a sé, e dopo poco si trovò in un ampio corridoio, che era fiancheggiato ai due lati da un numero immenso di statuette di bronzo e di pietra, rappresentanti dei gatti in varie pose.

      Ve n’erano però moltissimi anche imbalsamati, allineati su un cornicione che sporgeva presso la vôlta del passaggio.

      Come si sa, gli antichi egizi tenevano in grande considerazione quei parenti prossimi delle tigri, anzi adoravano, fra le molte divinità, Pakhit la dea dei gatti, che aveva il corpo di una donna e la testa dei felini, anzi ne ponevano nei loro sepolcreti e perfino entro le piramidi ove riposavano le salme dei re.

      Che più? Avevano perfino dei cimiteri, esclusivamente destinati ad accogliere i mici e che erano sotto la protezione della dea sopraccennata o del dio Nofirtonmon.

      Ultimamente anzi ne venne scoperto uno, al sud degli ipogei di Beni-Hassan, che conteneva la bagatella di 180.000 mummie di gatti colà deposte dai re della XVIII dinastia.

      Ounis continuò ad avanzarsi, proteggendo la lampada con una mano, essendovi ancora una forte corrente d’aria satura di quell’odore sgradevole che regna nelle cantine abbandonate, e sbucò finalmente in una sala così immensa da non potersene scorgere l’estremità, la cui vôlta era sorretta da un gran numero di colonne massiccie, abbellite di sculture rappresentanti divinità e ibis, l’uccello venerato dagli antichi egizi e che si vede su tutti i monumenti eretti in quelle lontane epoche.

      Lungo le pareti che erano lievemente inclinate, si scorgevano delle statue colossali, simili a quelle che si vedono ancora oggidì sulla facciata del tempio di Abu Simbel, pesanti e tozze, con quella grandiosità di forme colle quali sembrano concepiti tutti i monumenti dell’antico Egitto.

      Erano statue di uomini e di donne, i primi con berretti monumentali, sormontati da una specie di cocuzzolo, con delle strane barbe quadrate, più larghe verso il fondo che presso le labbra e degli stracci pendenti lungo gli orecchi e ricadenti sulle spalle, e le altre coperte dalla futta, quella specie di sottana che annodavano alle reni e che avvolgeva, come una specie di imbuto, le loro gambe.

      Veduti alla vacillante luce della piccola lampada, quei colossi, che stavano seduti gli uni presso gli altri colle braccia abbandonate sul ventre, producevano un effetto strano che impressionava profondamente Mirinri, non abituato altro che a vedere le acque verdeggianti o fangose del Nilo, le sabbie del deserto e le altissime palme ravvivate dall’umidità del fiume gigante.

      Ounis, che sembrava non s’interessasse né delle statue, né dei colonnati, né delle sculture, continuò ad avanzarsi verso il fondo di quell’immensa, interminabile sala, scavata nel vivo masso da chissà quante migliaia di operai, e si arrestò dinanzi a due statue di grandezza quasi naturale, che alla luce della lampada mandavano dei bagliori acciecanti. Una rappresentava un uomo, con indosso il ricco costume dei Faraoni ed il simbolo di vita e di morte collocato sulla fronte; l’altra una donna bellissima, con grandi occhi neri ed il viso dipinto in giallo; ma con un po’ di rossetto sulle gote, che le dava un aspetto singolarissimo ed insieme una speciale attrattiva.

      Entrambi portavano delle pitture di soggetto religioso, ripetizione ortodossa del gran rito etiopico, dove si vede l’anima del defunto fare la sua visita e le sue offerte a tutte le divinità, di cui essa deve implorare la protezione.

      Invece di chiuderli entro la bara, quell’antichissimo monarca e sua moglie, dopo essere stati imbalsamati, li avevano messi in piedi, sorreggendoli con un’asta di bronzo passata attraverso le strette fascie che li coprivano dalle anche ai piedi.

      Sia l’uno che l’altra, onde si conservassero meglio, erano stati coperti da un leggero strato di vetro, colato probabilmente sul luogo, un vetro traslucido, d’una purezza straordinaria, che scintillava vivamente sotto la luce proiettata dalla piccola lampada.

      «Chi sono costoro?» chiese Mirinri, che li guardava con vivo interesse.

      «Qobhou, l’ultimo re della prima dinastia e sua moglie,» rispose Ounis. «Guarda: su queste due tavolette di pietra nera sta scritto il loro nome.»

      «Ed è per farmi vedere queste due mummie che mi hai condotto qui?»

      «Aspetta, giovane impaziente. La nostra esplorazione non è ancora finita. A che cosa potrebbero servire questi morti? Non certo a darti mezzi per conquistare il trono. Seguimi ancora.»

      S’inoltrò in quell’immensa sala, che pareva non avesse più fine, passando fra due file di sarcofaghi di pietra, i cui rilievi esterni riproducevano esattamente le forme delle persone che vi stavano dentro. Alcuni erano dorati, altri invece argentati e raffiguravano re e regine.

      I primi avevano intorno al capo un disco rosso e portavano sotto il mento una barba intrecciata; le altre avevano un’acconciatura a bendoni, con dipinte sopra delle penne d’avvoltoio e la testa coronata da grosse treccie di capelli adorni con ametiste, crisoliti e smeraldi.

      Dopo alcuni minuti, Ounis s’arrestò dinanzi ad una sfinge mostruosa, lunga una ventina di metri e alta per lo meno quattro, che aveva sui fianchi delle iscrizioni rassomiglianti a segni geometrici.

      «Qui dentro è racchiuso il tesoro di Qobhou,» disse il sacerdote. «Vuoi vederlo?»

      «Mostramelo,» rispose Mirinri.

      Ounis si guardò intorno e vista una pesante mazza di bronzo appoggiata ad una colonna, l’alzò e percosse la sfinge sul muso.

      La testa girò subito su se stessa, poi cadde innanzi rimanendo sospesa mediante due grosse cerniere.

      Un’apertura circolare, formata dal collo dell’enorme statua stava dinanzi ai