gli occhi e la bocca ad un tempo.
– Come! – diss'egli, dopo esser rimasto un istante in quell'atteggiamento di stupore. – Tutto questo, nel matrimonio della mia nepote?
– Ma sicuro! E non può vederlo anche Lei, solo che ci pensi un pochino? Signor Prospero mio, le faccio un ragionamento. Mi segua attentamente. Che cos'è, prima di tutto, la ricchezza d'un paese? La proprietà territoriale, mi risponderà Lei, la proprietà territoriale che dà i frutti e guarentisce le rendite, rappresentate nei loro termini visibili e trasmissibili, dell'oro, dell'argento e della carta. È un cànone di economia che la carta non possa superare una certa quantità, oltre la quale il suo valore si scema, crescendone di tanto il valore delle cose cercate. Cionondimeno, è desiderabile che la carta, termine transitorio di scambio, come l'oro è un termine fisso, dia nell'abbondanza piuttosto che nel difetto, ottenendosi con ciò una mobilità maggiore del capitale e una tendenza a spendere, di cui tutte le industrie e tutte le arti si vantaggiano, e per conseguenza tutte le classi di cittadini. Ella mi segue, signor Prospero?
– La seguo, ma veramente… non vedo ancora…
– Vedrà poi. I ricchi, signor Prospero, i proprietarii della terra, sono i distributori della vita in un popolo. Ma non sono ancora tutto, come non è tutto ancora, nel corpo umano, quel congegnato sistema di arterie e di vene che spinge il sangue dal cuore a tutte le estremità, e dalle estremità lo riconduce al cuore. Non sono ancora tutto, ripeto. Accanto alla ricchezza, alla forza dell'oggi, c'è la tradizione, la ricchezza dell'ieri, che può esser forza o ricchezza del domani. Per uscir di metafora, ci sono i nobili, le grandi famiglie storiche, a cui principi e stati son debitori di tanta gloria e di tanta fortuna. Un paese ha mestieri di gloria come di pane. Anche la gloria è un elemento di prosperità. Un paese che non abbia tradizioni è come una casa a cui manchino i quadri. Ci avete il letto, la tavola, i cassettoni, le sedie, ma quella parete nuda vi dà la sensazione del vuoto. Ella m'intende, signor Prospero?
– Faccia conto; – rispose quell'altro, che incominciava a confondersi.
– Or dunque, – ripigliò con aria di trionfo il sottoprefetto, – che cosa dobbiamo far noi, per ornamento della gran casa che si chiama paese? Dobbiamo, o ch'io m'inganno, mantenere gelosamente le sue tradizioni. Il tentativo di cancellare ogni cosa non è savio; aggiungo volentieri che è vano, come si è dimostrato in Inghilterra sotto il Cromwell, e peggio in Francia, sotto il Robespierre. La reazione succede fatalmente all'azione. È una legge storica, com'è una legge meccanica. Uno stato prudente e previdente deve trasformare quello che non può mutare, tener conto di tutte le forze e moltiplicarle, associandole. Non le pare?
– Sono intieramente della sua opinione; – rispose il signor Prospero che non capiva più nulla.
– Ah, meglio così! – ripigliò l'oratore. – Ella dunque ammette con noi la necessità di queste alleanze tra famiglie e famiglie, tra i grandi nomi e le grandi ricchezze. Ma non basta.
– Come? Non basta ancora? – si provò a dire il signor Prospero.
– No, certamente, e la ragione non isfuggirà alla sua perspicacia. L'opera di un savio governo non finisce qui; deve andar oltre, promuovere queste alleanze tra provincia e provincia, perchè tutte le parti del gran corpo sociale ne risentano i benefici effetti e il corpo medesimo si rassodi nell'intreccio di tutte le parti che lo compongono. Ora, che cosa siamo noi, prefetti (e dico prefetti, perchè la promozione non può star molto a venire), che cosa siamo noi, se non gli strumenti di questa indagine, di questa cura diligente, di questa… —
Il cavalier Tiraquelli cercava il sostantivo, e il signor Prospero glielo suggerì.
– Impresa matrimoniale; – diss'egli.
– Signor Prospero! – esclamò il sottoprefetto, rizzando la testa, come per dare tutta la misura della sua dignità offesa.
Ma tosto si avvide, all'aria modesta del signor Prospero, che il suo interlocutore non aveva voluto dir niente di malizioso, e ripigliò, sorridendo:
– Diciamo anche impresa matrimoniale, quando i matrimonii non escano da quest'ordine elevato d'idee. Noi, inoltre, abbiamo l'ufficio, ugualmente nobile, di cercare il merito, dovunque si trovi, di farlo risaltare e di premiarlo, ad esempio ed incitamento per tutti. Ella, signor Prospero, ne ha la sua parte, e il governo aveva già pensato a mandarle la croce.
– A me?
– Sicuramente. Il nostro signor Prospero non era forse capitano della guardia nazionale?
– Che non si è mai radunata.
– Non è colpa sua, signor Prospero, ma dei passati ministeri, che non hanno pensato mai a rialzare il prestigio di questa istituzione in Castelnuovo Bedonia. Per me, ufficiale del governo, Ella è stato capitano per oltre dieci anni; ha dunque diritto alla croce di cavaliere. E non basta.
– Non basta? – disse il signor Prospero, con accento perplesso, tra il dubbio e la speranza.
– Non basta, – ribattè il sottoprefetto, – Ella ha parlato nel comizio agrario di Collemezzo.
– Dio buono – esclamò con aria modesta il signor Prospero. – Per dire che avrei piantato grano, scambio di sorgo, e patate, scambio di barbabietole.
– Egregiamente! Con ciò Ella ha dimostrata la sodezza del suo raziocinio. Non tutto è da cangiare nel mondo; – si degnò di riconoscere il sottoprefetto; – e ci sono delle vecchie usanze a cui bisogna attenersi, perchè esse hanno con sè il rincalzo dell'esperienza. Se i nostri padri, da tempo immemorabile, hanno creduto di mantenersi fedeli alla coltivazione della patata… Cioè, no da tempo immemorabile, perchè la patata è relativamente moderna… Ma insomma, signor Prospero, l'esperienza insegna, e Lei rappresenta l'esperienza, che bisogna star fermi nella conservazione dei vecchi sistemi. Un partito conservatore, saviamente conservatore, è anche necessario come forza d'equilibrio, in uno stato bene congegnato. Tutto è equilibrio, in politica come in meccanica. Ed io non tralascerò di dirlo in Senato.
– Come? – gridò il signor Prospero. – In Senato? E quando?
– Quando ci andrò; – rispose il sottoprefetto, abbassando le ali della sua ambizione. – Ma torniamo a noi. Ella è un agronomo, signor Prospero. L'Italia ha bisogno di agronomi. Non lo ha letto, Virgilio? Salve magna parens frugum Saturnia tellus. Eccole un bel verso, da mettere per epigrafe sopra un opuscolo, che io le consiglio di scrivere. —
L'idea dell'opuscolo agrario, ad onta dell'epigrafe, nuova di zecca, che gli suggeriva il sottoprefetto, sorrise mediocremente al signor Prospero degnissimo.
– In fede mia, – diss'egli, – non saprei da che parte rifarmi.
– Buona volontà, amico mio, e il resto viene da sè. Leggete qualche libro d'agronomia; servirà per risvegliarvi le idee. Io ho avuto molto profitto dai Segreti di Don Rebo, dell'Ottavi; un libro aureo, che m'ha aiutato ad improvvisare quattro discorsi. Capirà, signor Prospero, che il mio campo non è l'agronomia. Io sono anzi tutto un uomo politico. Legga l'Ottavi, è una miniera; metta insieme quattro principii di scienza, per far da preambolo ai consigli della sua pratica, e vedrà. Come capitano della guardia nazionale aveva diritto alla croce di cavaliere; come agronomo l'avrà a quella d'ufficiale.
– Il commendatore è ancora lontano; – osservò il signor Prospero, ridendo.
– Tutt'altro; facciamo questo matrimonio, che tanto premerebbe al ministro per le ragioni che ho avuto l'onore di esporle, e avrà subito il collare.
– Capisco, capisco, sarebbe un premio per un fortunato incrociamento di razze.
– Ella ha molto spirito, commendatore; le faccio i miei complimenti.
– Oh, con Lei, signor prefetto, chi non ne avrebbe?
– Dunque, da bravo, abbia anche un poco della mia premura, e mi conduca questa faccenda a buon porto.
– Farò quel che potrò, ne stia certo. Se l'Italia ha da avere un benefizio da questo matrimonio, non sarò io che darò indietro. Ma badi, signor prefetto, io non sono