Barrili Anton Giulio

L'undecimo comandamento: Romanzo


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uomo simile non va trascurato. Egli è il primo in Castelnuovo Bedonia, non lo dimentichiamo.

      Il nostro cavalier Tiraquelli era rientrato nella sala di ricevimento, in compagnia del fido signor Prospero Gentili, il cui volto aperto e sorridente pareva già lumeggiato dai toni caldi d'un collare della Corona d'Italia. Il futuro commendatore aveva fatto un mezzo giro a sinistra, per andare tra gli uomini gravi, nel consesso degli Dei, accanto al canapè di damasco rosso, dove sfolgoravano di luce propria la padrona di casa e la contessa Gamberini. Il sottoprefetto aveva fatto un mezzo giro a destra, verso il crocchio dei begli umori; aveva ascoltata con benevola gravità una barzelletta del ricevitore del registro; quindi, come un sovrano in volta attraverso le file de' suoi cortigiani, era andato verso il pianoforte, dove scoppiettava l'arguzia del duca di Francavilla.

      – Signor duca, bene arrivato. Di che si parlava?

      – Ah sì, Ella capita proprio a tempo, signor cavaliere, – disse il duca, ridendo. – Ce n'ho una che vale un Perù. Ella ha nella sua giurisdizione una meraviglia, ed io non ne sapevo ancor nulla. —

      III

      Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia atteggiò le labbra ad un sorriso tra l'arguto e il melenso, che rispondeva benissimo allo stato particolare di un uomo, il quale per ragione dell'ufficio dovesse indovinare a volo e che frattanto avrebbe voluto essere aiutato un pochino.

      – Una meraviglia! – esclamò egli avvicinandosi e cercando di guadagnar tempo.

      – Mi correggo; – ripigliò il duca di Francavilla. – Le meraviglie, nel suo circondario, sono parecchie, anzi più delle sette di cui si vantava l'antichità; – soggiunse egli, volgendo intorno una rapida occhiata, come se volesse sparpagliare il complimento tra tutte le sue ascoltatrici. – Ma intendevo parlare d'una meraviglia medievale, di una stranezza, d'un anacronismo… infine, per chiamar le cose col loro nome, del convento dei matti.

      – Ah! – rispose il sottoprefetto, dando una rifiatata. – E lei, signor duca, si è inerpicato fin là?

      – Certamente; il dilettante d'archeologia preistorica ha perduta la sua giornata, facendola guadagnare al curioso. Ho veduto il convento dei matti e ci ho mangiata anche la frittata dell'amicizia. —

      Il duca di Francavilla non s'immaginava di aver fatto una cosa tanto singolare. Lo pensò, quando vide che tutti gli si strinsero intorno, come altrettanti bambini a cui avesse raccontato di essere andato alle tre montagne d'oro, o agli alberi del sole.

      – Racconti, signor duca, racconti! – gli dissero.

      – Penetrare nel convento dei matti non è mica una cosa facile!

      – Davvero?

      – Sicuramente, e Lei può stimarsi fortunato. Ci è una guardia così severa contro tutti i curiosi!

      – È vero quello che se ne dice? – domandò la signorina Adele Ruzzani.

      – Signorina… – rispose il duca, – io veramente non so che cosa se ne dica…

      – Che ci sono in quel convento degli uomini in collera col mondo.

      – Come tutti i frati, signorina.

      – Che si lasciano crescere la barba fino alla cintura; – soggiunse la signora Morselli.

      – E si scavano la fossa come i certosini; – rincalzò la contessina Berta.

      – Signore mie, non ho veduto niente di ciò; – rispose il duca di Francavilla. – Ho trovato delle persone a modo, con le barbe regolari, ed anche col mento raso. Che siano in collera col mondo, mi par di capirlo dal fatto che si son dati alla vita monastica. Ma infine, non mi è sembrato che odiassero tutti, poichè mi hanno ricevuto benissimo, senza sapere chi fossi, e mi hanno lasciato andare via senza domandarmelo affatto.

      – Essi, – notò il sottoprefetto, – non odiano che il sesso gentile.

      – Oh brutti! – esclamò la signora Morselli, con un gesto di orrore.

      – Già, – continuò il sottoprefetto, – abborrono le giovani; per aver grazia davanti a loro, bisogna essere venerabili. —

      La signora Morselli che voleva essere annoverata fra le giovani, arricciò il naso, peggio che non avesse fatto da prima.

      – Ma in che modo è andato a battere lassù, signor duca? – ripigliò il sottoprefetto, lasciando a mezzo il suo dialogo con la signora Morselli.

      – Oh, in un modo naturalissimo, e quasi senza avvedermene. M'ero alzato stamane per tempo, e andavo al mio lavoro prediletto nella caverna della Ripa, quando mi venne udito dalla costa di rimpetto il rumore di alcuni sassi che si staccavano dall'alto e sdrucciolavano giù per la frana. Alzai gli occhi e guardai. Credetti alle prime di riconoscere un cane; ma la sua andatura guardinga per un sentiero così strano, mi pose in sospetto.

      – Un lupo, forse? – disse la signora Morselli, fingendo un brivido di leggiadra paura.

      – No, una volpe. Non istetti molto ad accertarmene, osservando la sua coda alta e vistosa. Avevo il mio fucile ad armacollo; ma la distanza era troppo grande e non mi fidai di lasciarle andare una botta. Un contadinello che veniva dietro a me, con un carico sulle spalle, mi disse: – "Badate, se volete prenderla, io posso insegnarvi il suo covo, che è là." – E mi additava una balza, sormontata da cinque o sei pini bistorti, a forse cinquecento metri dal punto ov'era la volpe. – "Vuoi tu accompagnarmi?" – gli dissi. – "Per ora, fino a mezza strada, – mi rispose; – ma se volete aspettarmi, tanto che io consegni questo carico alla badìa, vi accompagnerò fino alla tana." – Non sapevo che si trovasse una badìa da quelle parti, e domandai che frati ci fossero. – "Non son frati, – mi disse il contadino, – quantunque vestano da frati; il parroco dice che son lupi travestiti da pastori; la gente dice che son matti." – "E tu che cosa ne dici?" – "Che potranno benissimo esser matti, ma che di sicuro non sono lupi, e che non vanno vestiti da pastori, perchè hanno la tonaca, proprio alla maniera dei frati." – La cosa mi parve singolare. Lasciai correre la volpe e interrogai il contadino, sperando di cavarne qualche notizia intorno a quel convento di frati che non erano frati, di lupi che non erano lupi, e di matti che potevano esser savi, più di tanti e tanti che ne hanno la riputazione. Ma il contadino mi aveva detto quasi tutto quel che sapeva. Gli abitatori del convento non li conosceva; soltanto ne aveva veduti due o tre da lontano, e non era in relazione che col frate converso. Egli non mi sapeva descriver nulla, neanche l'abito di quei monaci, se avesse qualche particolarità notevole, che lo avvicinasse ad un ordine, o lo distinguesse da un altro. Ed io, curioso come… un uomo, risolsi di accompagnarlo fino alla porta del convento. Tanto, a sentir lui, era tutta strada per andare verso i pini, dove ci aveva il suo covo la volpe. Mi allontanavo invece dalla mia caverna ossifera; ma questa mi avrebbe sempre aspettato. Eccomi dunque, signore e signori, in viaggio per il convento dei matti. Si passa un torrentello, si entra in una forra, si scende ancora, fino ad un ponte massiccio, d'un arco solo, che mette ad una torre quadrata con le sue feritoie in basso, le sue caditoie in alto e i merli sul colmo, come ogni torre che si rispetta.

      – Dio, come descrive bene! – mormorò la signora Morselli. – Par di vederla.

      La modestia del duca di Francavilla fece le viste di non aver udita la mezza voce del soprano sfogato.

      – Di là dal ponte, – diss'egli, continuando, – è una macchia fitta di frassini e di cerri che nasconde il sentiero. Che pace, là dentro! Solo a vedere quella conca di verde cupo, ho intesa la vita monastica, e per cinque minuti ho invidiati i santi uomini che vissero là dentro, ignorati dal mondo.

      – Fino alla soppressione delle fraterie; – notò il sottoprefetto. – L'eremo di San Bruno è stato venduto dieci anni fa.

      Le signore mostravano desiderio di udire la continuazione del racconto. E il duca proseguì:

      – Entrato sotto il portico in compagnia del contadino, vidi il frate converso, un giovialone con tre giri di pappagorgia, tondo come una botte, ma giovane ancora, e con due occhietti