la penna e per la gioia di vedere le parole vive dell'anima sua scrisse: «Infinito, ti domando l'infinito.»
Però non fu mistico. La sua ragione imperiosa glielo vietò. Pregò, fece pregare mesi e mesi, più ore ogni giorno, per aver qualche segno della volontà Divina circa il luogo dove pose la prima sede del suo Istituto. Ecco, due amici suoi, senza sapere l'uno dell'altro, vengono a dirgli che han pensato, Dio sa perchè, ad un colle presso Domodossola. Un mistico avrebbe detto senz'altro: «Il Signore mi vuole a Domodossola: andiamo.»
Invece Rosmini mandò a vedere, secondo ragione, se il luogo era adatto. Anche l'umiltà sua era secondo ragione. Sconfinatamente umile rispetto a Dio, non parlò mai con dispregio del proprio intelletto, divino dono, nè della opera propria. Non conobbe questa specie di superba umiltà. E sapendo che tutto il suo bene gli veniva da Dio, ebbe onesta coscienza della propria grandezza morale. L'uomo umile che in una sala d'albergo sorrise e tacque mentre un suo inferiore lo tacciava di vanità per una nappina troppo grossa, e, impugnate le forbici, gliel'assottigliava, fu in pari tempo magnanimo, parlò schietto a Pontefici e a Re, alzò la fronte e la voce per quello che a lui parve giusto, e contro accuse di errore scese risoluto in campo. La natura ne aveva fatto uno schermitore formidabile, pronto alla risposta quanto alla parata, un ragionatore acuto, duro e tagliente, un maestro d'ironia. Si represse a tutta forza. Appena gli sfuggì qualche lampeggiante puntata della quale certi amici di piccolo animo si dolevano con esso. Egli rispondeva umile, si faceva piccino ai piccini senza tuttavia ceder loro un atomo solo del diritto e del dovere di difendere virilmente la verità. Lo zelo del vero lo accendeva e non lo accendeva l'amor proprio. All'amor proprio disordinato non permise una sola parola mai. Quando morì il professore Tarditi, fu trovato nelle sue carte certo scritto di pedagogia. Era di suo pugno e fu pubblicato per suo. In fatto egli aveva copiato un manoscritto del Rosmini tuttora inedito. Rosmini seppe e tacque. Certo gli parve disordinato amor proprio far valere sull'idea ragioni di proprietà personale. Gli bastò che, liberata, parlasse.
L'amore di Dio non gli assiderò gli altri. Tutti gli amori che sono nell'ordine della natura umana lo infuocarono. A nove anni, ancora come Dante, conobbe l'amore che ha più del terrestre e più del divino. Parve a Nicolò Tommasèo che di questo fatto, da lui asserito, permanesse nella mente dell'uomo grande un'orma profonda, un particolare dilatamento di visione. Represse il fuoco dell'amore, e se qualche minore ordine appare nella sua natura n'è causa, penso, la calcata fiamma che deviando dall'amore rapì l'animo di lui nelle fervide amicizie. Quanti amici ebbe e con quale passione li amò! Giovinetto ancora, medita un'associazione di amici spirituali per la gloria di Dio, ne fa un ideale, un sogno. La gioia di sapere che uno sperato compagno del suo sogno sarebbe venuto ad abitare Rovereto è tale ch'egli ne scrive: «mi empie, mi ravviva, mi anima, mi affuoca.» Fatto uomo, non è men pronto all'affetto. A Milano, in casa del conte Mellerio, s'incontra con Loewenbruck, un prete francese pieno di fuoco e di zelo religioso, tuttavia disforme da lui, posta la comunanza di fede e di propositi, quanto è possibile. Il fuoco di Loewenbruck è fiamma scoperta che va fluttuando ad ogni vento; il fuoco di Rosmini è fiamma nascosta e ferma dentro un vaso di alabastro, fiamma che non si sdegna nelle forme sue ma che illumina. Quando Loewenbruck, dimentico di promesse date, non comparisce all'eremitaggio dove Rosmini lo aspetta, questi gli scrive e gli riscrive sino a sei volte senz'averne risposta; supplica, ripete come non altro desideri che stringere l'amico fra le sue braccia. A quanti gli domandano aiuto, consiglio, conforto, Rosmini si prodiga: e con quale ardore! Da 15 a 20 mila lettere esistono tuttavia di lui. Fin sul letto di morte, fra i dolori più crudeli, fra gli slanci della preghiera e le immagini del mistero imminente, amò i suoi amici. Quando Alessandro Manzoni entrava nella sua camera, gli occhi suoi raggiavano di luce immortale. «Manzoni sarà sempre il mio caro Manzoni» gli sussurrò egli una volta «nel tempo e nell'eternità.» E gli afferrò, gli baciò ambe le mani. Manzoni si ritrasse quasi sgomento, si volse, con impeto umile, e baciò i piedi del santo amico. «Ella fa questo» disse il morente «perchè non ho più la forza d'impedirlo.» Poche ore ancora, e un silenzio solenne si fece nella camera, sul letto di Antonio Rosmini rimase la sua spoglia sola. Manzoni si alzò, afferrò un volume, la terza cantica della Divina Commedia, impresse forte la bocca sulle pagine eterne, baciò il suo Rosmini nel paradiso, si unì terzo, in quell'avido bacio, agli spiriti più grandi che Iddio abbia donato, pieni di Lui, all'Italia.
Dopo Dio e la Chiesa, Rosmini amò sopra ogni cosa la patria. Mentre Giuseppe Mazzini e pochi seguaci suoi congiuravano per un'idea che parve sogno ed era germe, Rosmini, solitario, sdegnoso di ogni via torta o coperta, pieno di fede nella potenza del pensiero, afflitto dalle dissensioni che travagliavano la patria sua discorde perchè divisa, e perchè divisa debole, infingarda, si proponeva di richiamarla all'unità intellettuale. Era in lui la passione di Petrarca e di Dante, la fiamma che balena, con rapida vicenda, dall'amore allo sdegno e dallo sdegno all'amore, come balena e si trasmuta dall'azzurro al vermiglio, dal vermiglio all'azzurro la luce di certe stelle. Talvolta, parlando dell'Italia, neppure vuol proferirne il nome, la chiama «nazione dormiente.» Talvolta insulta la «vecchia fanciulla che va recitando lezioni apprese alle scuole altrui» e con rapido trapasso dall'insulto all'amoroso appello «sorgi,» le dice «tendi all'unità intellettiva che, se lo vuoi, non ti può esser contesa, e diverrà allora fortissima la tua sciagurata bellezza.» Combattendo la dottrina di errore imperante in Italia nel tempo di Gioia e di Romagnosi, il sensismo, egli aveva, senza dubbio, il supremo proposito di strappare a un antico sofisma la sua veste nuova, ma era pure suo proposito di allontanare gl'italiani da una filosofia che innalzando i sensi alla dignità di soli maestri del vero, riusciva a distruggere ogni fede nell'assoluta giustizia, in un ordine ideale delle cose collegato a principii immutabili e quindi nel diritto eterno alla indipendenza e alla libertà; da una filosofia tendente a diffondere la concezione materialistica e utilitaria dell'universo, a perpetuare il tristo sonno in cui giaceva la patria nostra quando, nell'ombra, il suo agitatore infaticabile al nome del popolo univa il nome di Dio e nella luce, Rosmini, ministro più grande di un ideale più intero, preparava la prima pietra del suo sistema, il Saggio sulla origine delle idee. Ma Rosmini non credette aver soddisfatto con libri di metafisica il suo debito verso l'Italia. Allorchè gli parve esser venuto il momento di scendere dalle altezze vertiginose della speculazione filosofica per farsi maestro e consigliere alle moltitudini che udiva fremere nel basso, scese. Scese come Mosè con un tesoro di sapienza conquistato su cime nascoste al popolo da impenetrabili nubi. Parlò della Chiesa al clero cattolico, parlò dell'Italia agl'italiani. Il manoscritto Delle cinque piaghe della Chiesa, pronto da molti anni, fu consegnato al tipografo Veladini di Lugano nel 1847. L'opuscolo La costituzione secondo la giustizia sociale, con l'appendice sulla unità d'Italia, uscì nei primi mesi del 1848. Niente di più infuocato sgorgò mai dalla sua penna. Il fuoco che prevale nello scritto religioso è fuoco di sdegno. La tirannia dei governi che si atteggiavano a protettori della Chiesa cattolica per atterrirla, l'affliggente mediocrità dei vescovi, la ignoranza del basso clero, la separazione del popolo dai suoi pastori, la profonda indifferenza pubblica furon soggetto di pagine sfolgoranti a quest'uomo che passava ogni giorno più ore nella preghiera e nella meditazione religiosa, che si umiliava sino a ministrare ai suoi fratelli di religione quando pranzavano, a usar la granata in loro servizio; che venerava la Santa Sede tanto da desiderar di cadere in qualche lieve errore per aver poi la gioia di sottomettersi. Io ho citato altrove una di tali pagine ma non posso a meno di rileggerla qui. È una invettiva contro i libri di teologia usati al suo tempo nei seminari: «libri dove tutto è povero e freddo: dove l'immensa verità non comparisce che sminuzzata, e in quella forma in che una menticina l'ha potuta abbracciare, e dove all'Autore, spossato nella fatica del partorirla, non è restato vigore d'imprimere al libro altro sentimento che quello del suo travaglio, altra vita che quella d'uno che sviene; libri a che il genere umano, uscito dagli anni della minorità fanciullesca, volge per sempre le spalle poichè non vi trova sè stesso nè i suoi pensieri nè i suoi affetti, e a cui tuttavia si condanna barbaramente e ostinatamente la gioventù che pur col senso naturale li ripudia, e che bene spesso per un bisogno di cangiarli in migliori cade nella seduzione di libri corrompitori o acquista un'avversione decisa agli studi o da lungo patir violenza nello stringimento delle scuole prende un odio occulto, profondo, che dura quanto la vita, contro i maestri, i superiori tutti, i libri e le verità stesse in quei libri contenute.» Voi avete udito, signori. Sono parole di un Santo a cui fu cara la libertà della coscienza e della parola cristiana fuori dei confini del dogma, nel campo aperto alle