in suo arbitrio mai.
Qui è, in fondo, il segreto delle inimicizie mortali che nel seno stesso della Chiesa cattolica germinarono, covarono, insorsero, mal piegarono al comando di Pio IX, attesero con pazienza feroce il loro giorno e, quando venne, fecero di quest'uomo, de' suoi scritti, del clero a lui devoto, rabbiosamente, tutto lo strazio che poterono. Ciò fu attribuito alle fallite speranze di un Ordine religioso che ambiva contare Antonio Rosmini fra i suoi, al dispetto di quest'Ordine per il nuovo Istituto da lui fondato e per le dottrine morali difese nel Trattato della coscienza contro moralisti cari alla Compagnia. Queste spiegazioni bastavano forse un tempo; adesso le credo insufficienti. La causa vera, fondamentale, permanente dell'odio implacabile onde una parte della Chiesa persegue ciò che battezza, quasi con un nome di eresia, rosminianismo, è l'opera data senza tregua da questa parte a spogliare la coscienza e la parola cattolica delle loro legittime libertà, a fare della Chiesa una specie di grande monarchia dispotica e militare, tanto più potente quanto più silenziosa; ed è la resistenza invitta ch'essa trova nello spirito di Rosmini tuttavia vivente nei suoi libri e nei suoi discepoli: vivente e immortale.
Nell'altro opuscolo prevale il fuoco dell'amore. Correvano i primi mesi del quarantotto ed era per tutta Italia una primavera delle anime, un calore nuovo di sentimenti fraterni, un rinverdire di speranze immense. Rosmini teneva nella sua scrivania, fin dal 1822, un progetto di costituzione. Lo riprese, ne fece un progetto di Statuto per il Santo Padre. Alcuni Cardinali amici suoi lo volevano a Roma. Il Papa non aveva parlato e Rosmini non si mosse da Stresa, mandò il progetto con una lettera e scongiurava che non si affrettasse nulla, che a nessun patto si prendesse una costituzione di tipo francese. Gli amici insistevano, gli dicevano che il Papa stava leggendo con soddisfazione le Cinque Piaghe, che lo vedrebbe volentieri. Ma il Papa taceva e Rosmini non si mosse.
Intanto gli avvenimenti mutavano faccia: il Papa, di bellicoso diventava pacifico, e tutta Italia ne fremeva. Rosmini ne fu atterrito. Divinò tosto, nella sua mente sovrana, che rifiutando di mover guerra all'Austria, Pio IX segnava la fine del potere temporale dei Papi. La guerra all'Austria era un dovere del principe; se il Pontefice giudicava non poterlo compiere, il mondo avrebbe detto che gli uffici della signoria terrena non sono conciliabili con gli uffici della signoria spirituale. Ciò non piaceva a Rosmini. In politica Rosmini era insieme un idealista e un pratico. Il suo ideale fu l'unità della patria; il senso pratico gli rappresentò la difficoltà di stringere frettolosamente in un solo Stato popolazioni fatte disformi dalla storia più ancora che dalla natura e la difficoltà creata dal dominio temporale del Pontefice. Gli parve che al desiderio comune di una Italia libera e potente, alle condizioni del popolo italiano partito fra sei principi e una signoria straniera, alla dignità e allo splendore della Santa Sede si sarebbe provveduto bene istituendo una Lega italiana, affidandone al Pontefice la presidenza d'onore e il governo effettivo a una dieta sedente in Roma, composta per due terzi di rappresentanti del popolo e per un terzo di rappresentanti dei principi i quali, a cominciare dal Santo Padre, avrebbero promulgato costituzioni identiche. Sottoponendo il Santo Padre all'autorità suprema della dieta, Rosmini sperava ottenere da lui che almeno per la fede giurata al patto federale, quando la dieta avesse deliberato di romper guerra all'Austria, egli obbedisse.
La guerra all'Austria era il sogno di Rosmini. A fronte di privati offensori, Rosmini si ricordò sempre ch'era Ministro di un Dio di pace, e imparò il perdono da Lui che fu mite e umile di cuore. A fronte degli offensori della verità Rosmini sempre si ricordò di avere a maestro il Divino che sui farisei girò lo sguardo con ira e ai profanatori del tempio fu acerbo. A fronte di un governo che chiamò violatore della nazionalità, della giustizia, della moralità, della libertà naturale, Rosmini si ricordò sempre di servire il Dio degli eserciti. L'Austria era per lui la grande nemica della Chiesa e della patria. La protezione che il governo austriaco esercitava per fini tirannici sulla Chiesa gli parve oltraggiosa e odiosa come la protezione offerta da don Rodrigo a Lucia. Rispetto e libertà, non protezione, voleva egli per la sua Chiesa. Indipendenza e libertà voleva per la sua patria. Poichè solo si potevano ottenere in giusta guerra, Rosmini la predicò, e poichè con l'Austria non potevano gl'italiani misurarsi se non uniti, predicò ai principi e ai popoli d'Italia l'unità, minacciò di rovina coloro che rendessero l'unità impossibile.
Non valendo a persuadere il Pontefice renitente alla guerra, Rosmini concepì un vasto disegno nell'intento di liberare la Lombardia e il Veneto senza guerra. Da grande uomo di Stato egli aveva letto nel libro del destino la futura unità germanica. Previde che si sarebbe compiuta a benefizio di un principe protestante. Questo era un pericolo per la Chiesa. Consigliò che il Santo Padre appoggiasse con tutte le sue forze le aspirazioni unitarie del popolo tedesco e la risurrezione del trono imperiale tedesco dentro la reggia di Casa d'Austria per ottenere da questa, in compenso, l'abbandono delle sue provincie italiane. Il trionfo del gran disegno avrebbe soddisfatto due popoli e raffermato il potere vacillante del Pontefice. Ma fortunatamente queste ultime parole non erano scritte nel libro del destino. Pio IX non aveva Ministri atti a concepire divisamenti così grandi nè a eseguirli; e non chiamò Rosmini. Lo chiamò invece, in un'ora dolorosa, dopo i disastri delle armi piemontesi, il governo di Re Carlo Alberto.
Rosmini, posposta ogni cura del corpo malato e stanco, posposte le antiche consuetudini di vita nascosta e di studio, corse a Torino, conferì con i Ministri che lo volevano negoziatore in Roma di una Lega per la guerra, chiese un mandato più largo, ne segnò i confini con ferma parola. Si accese una discussione. Vi era nella sala, fra i consiglieri del Re, il più grande e fiero antagonista del Roveretano, l'uomo che gli aveva scagliato non meno di tre grossi volumi col titolo: Errori filosofici di Antonio Rosmini e contro il quale Rosmini aveva scritto: Vincenzo Gioberti e il Panteismo. In tutta Italia e anche oltre le Alpi, durante il papato di Gregorio XVI, grande amico e protettore di Rosmini, era corso il suono di questo conflitto fra i due più potenti ingegni che tenessero allora il campo nelle regioni superiori del pensiero; conflitto fatto più acerbo dall'accanimento dei discepoli; tanto acerbo, che si disse Papa Gregorio essere intervenuto a reprimere il soverchio ardore di un dignitario della Chiesa avverso al Rosmini. Il momento era solenne, e quel che accadde fu bello. Quando Rosmini rifiutò il mandato ristretto ad un'alleanza offensiva con Roma e chiese tranquillamente poter trattare di tutto che riputasse utile all'Italia e alla Chiesa, i ministri sbigottirono. Com'era possibile abbandonarsi a tal segno nelle mani dell'abate? Allora Vincenzo Gioberti parlò. «Ascoltate Rosmini,» diss'egli «fate come Rosmini vuole.» Momento epico, parole in cui si sente con un brivido la grandezza di quei due uomini, la grandezza pure della patria cui tutto donavano, la grandezza di Dio che li riempiva, nel sacrificio, di sè. Rosmini uscì della sala per andar incontro a giorni terribili e amari, all'insuccesso della sua missione e de' suoi consigli, ai tumulti del popolo di Roma, alla fuga del Pontefice, alle persecuzioni borboniche, Gioberti ne uscì incontro a un destino più atroce, ad accuse di tradimento, a una caduta clamorosa, alla morte in un paese straniero. Io li vedo attraversar frettolosi, dopo la seduta, piazza Castello, passare accanto al Palazzo Madama, Certo nè l'uno nè l'altro potè immaginare che per effetto di luttuosi avvenimenti cui l'uno e l'altro avrebbe preso parte, bene salito un giovine principe sul trono del padre, male ricondotto un vecchio principe sul suo proprio, risorte le prostrate speranze della patria, meno di tredici anni dopo si sarebbero veduti uscire insieme da quel palazzo, raggianti, proclamato appena re d'Italia il figlio di Carlo Alberto, due vecchi amici di Rosmini, Camillo di Cavour e Alessandro Manzoni.
Signori, io mi sono studiato di rappresentarvi la figura morale di Antonio Rosmini e ora mi pento di avere spese troppe parole a dire l'inesprimibile. Misero artefice di periodi, mi umilio davanti a un vecchio analfabeta che servì Rosmini e cui domandai in Rovereto che mi descrivesse il suo venerato don Antonio. «Ecco» mi rispose «quando io qui per casa lo incontravo, anche senza ch'egli parlasse, solo a guardarlo, era una predica.» Altro non mi disse, altro non gli chiesi. Poco prima, la baronessa Adelaide Rosmini mi aveva mostrato in un cortiletto la finestra dov'ella nascosta dietro un cortinaggio, soleva guardar nella camera del cognato, spiare il volto di lui orante. «Una cosa di Paradiso» mi disse la vecchia signora. Aggiungete a questi silenzi certe brevissime parole che ora vi ripeterò. Nel 1848, essendo Rosmini in Roma, appena si seppe che il Papa lo voleva Cardinale, disegno troncato poi dal coltello che uccise Rossi, un altro suo vecchio fidatissimo servitore, uomo semplice fra i semplici, andò diritto dal Papa. «Santo Padre,» gli disse «non vogliate