MANZONI
Signore e Signori!
I
Qualcuno di voi forse ricorda che l'anno passato, nella conferenza che ebbi l'onore di tenere in questo stesso luogo, rilevai, a proposito di Alessandro Manzoni, la opinione mia intorno al romanticismo, considerato nel periodo in cui aveva raggiunto il suo momento più operoso, tanto fra noi quanto in Europa.
Eravamo nel 1821, e Manzoni scriveva al Conte Cesare D'Azeglio: «Per me il romanticismo ha compiuto la sua vicenda, e ormai sarebbe un bene che non se ne parlasse più, e non mi dorrei se anche il nome andasse in dimenticanza.» E invero, ciò che egli poteva fare l'aveva già fatto: soppressione delle così dette unità aristoteliche nel dramma, bando alle mitologie gentilesche, bando alla troppo servile e pedissequa imitazione degli autori classici; predilezione ormai consacrata per argomenti d'indole nazionale e per quelli che attengono all'intimità dello spirito. Erano notevoli inoltre nella conquista del romanticismo certi atteggiamenti di forma, e una spiccata predilezione di tutto ciò che aveva un po' del vago e del fantastico. Ma, soggiungeva poi il Manzoni, io credo che oltre tutto ciò bisogni indagare un carattere più intimo e più profondo che è nel moto detto romanticismo, qualche cosa che sopravviverà a lui anche quando esso rimanga un nome vano nella storia letteraria e che gli permette fin d'ora di guardare l'avvenire come suo. Consiste questo in un più grande ravvicinamento dello spirito alla natura per mezzo dell'osservazione diretta, dello studio intenso, dell'ispirazione spontanea e geniale.
A questa massima il Manzoni ha informato tutta la sua opera. Appena che egli esce di puerizia, e abbandona gl'imparaticci classici e le servili imitazioni del Monti o del Parini, fin dai versi in morte di Carlo Imbonati, scritti come sapete nel 1805, egli dà all'arte una base intima, psicologica: «Sentire e meditare.» Poi vengono gl'Inni, poi le Tragedie, dove si comprende subito che l'unità di luogo e di tempo non è rimossa a semplice pompa di emancipazione: non sono dei vincoli di meno che il poeta domanda, sono limiti più alti, per improntare tipi schiettamente umani e raccogliere nel dramma il quadro di un'epoca.
Da ultimo viene il romanzo, il quale fu cominciato a meditare dal Manzoni nel 1821, data per tanti rispetti memorabile nella vita del nostro poeta, perchè proprio in quell'anno sprigiona l'inno patriottico del Ventuno, perchè in quell'anno egli inalza all'urna di Napoleone un canto che non morrà. Nel 1821, il Manzoni comincia a ruminare la prima idea, a porre le prime linee del suo grande lavoro, che sarà terminato all'incirca nel 1826. Ed è nel romanzo, o Signori, che noi troviamo la conferma e la illustrazione piena di quel profondo concetto che egli aveva dell'arte e della letteratura; è nel romanzo che mostrò tutta intera la originalità dell'artista, perchè se nella lirica egli si schiude vie nuove come idee e come sentimento, quanto alla forma letteraria (i critici arguti e acuti non hanno mancato di rilevarlo) noi troviamo sempre qualche cosa di composito, di ondeggiante, di ambiguo tra il vecchio e il nuovo. Nel romanzo invece, pare di entrare in un'altra atmosfera; è la modernità e nel tempo stesso la personalità dell'ingegno e del criterio artistico del Manzoni, che si rivelano in tutta la loro potenza e in tutto il loro splendore. Se, come nota giustamente Gaetano Trezza, nelle altre opere il Manzoni procede alla testa del movimento letterario contemporaneo, col romanzo egli precorre di lungo tratto i suoi tempi. Non è più un'evoluzione, o Signori, è un salto fenomenico, che a considerarlo ora a tanta distanza di tempo, ed a compararlo colle vicende successive della letteratura, e specialmente della letteratura narrativa, pare senz'altro un miracolo.
Gaetano Negri, nella bella conferenza che tenne sul Manzoni a Lecco, ha detto: «Se verista vuol dire un poeta amante di verità, se naturalista vuol dire un artista che s'ispira direttamente alla natura e mutua e trae da lei tutte le sue ispirazioni, senza porre nessun diaframma d'impedimento e di perturbazione tra il fatto organico e vivente, e la sua ingenua ed energica significazione; se verista e naturalista vogliono dire queste cose, nessuno è stato verista e naturalista prima di Alessandro Manzoni.» E il Negri ha detto il vero. Avanti che cominciasse Balzac, dieci anni prima che nascesse Gustavo Flaubert, venti anni prima che nascesse Emilio Zola, Alessandro Manzoni in Italia poneva senza pompa di formule, senza esagerazione di sistema le grandi basi della letteratura e dell'arte moderna. E abbiatene una riprova in questo: quando apparvero i Promessi Sposi non ebbero subito quell'accoglienza trionfale che altri riscosse meritamente, per esempio l'Ivanhoe di Walter Scott. L'Ivanhoe veniva dopo molti altri romanzi che avevano procacciato gran fama al narratore scozzese, e tutto quel trasporto del pubblico facilmente si comprende. Non furono le ultime copie della prima edizione dei Promessi Sposi rubate e disputate colla spada come quelle del Gil-Blas: ma nella coscienza degli uomini più illuminati di quel tempo indusse un'impressione profonda. Il Visconte di Chateaubriand che pure era l'autore dell'Atala e dei Martiri disse: « Walter Scott è grande, ma Alessandro Manzoni è qualche cosa di più.» Wolfango Goethe che allora pontificava nella pienezza degli anni e della gloria, dal suo trono di Weimar su tutto quanto si produceva in Europa, disse, letto il romanzo e pure trovandolo censurabile per certi squilibri che vi aveva introdotto il troppo amore della scrupolosa narrazione storica, disse che rappresentava qualche cosa di meglio di quanto si era scritto fino ai suoi giorni in fatto di romanzi. E soprattutto notevole o Signori, è l'opinione di un filosofo dal quale si può dissentire, ma che tutti riconoscono come uno dei fondatori della scienza moderna, anzi come colui che ha dato nome a ciò che la scienza moderna inalbera a mo' di vessillo glorioso, il rigore della osservazione naturale. Augusto Comte, l'autore della «Filosofia positiva» nel sesto volume delle sue opere, seguendo il suo magistrale concetto delle tre epoche, dice: «Noi siamo entrati nell'epoca positiva, nell'epoca dell'esame diretto e spassionato dei fatti, ma ci siamo entrati solamente col pensiero scientifico. Tutte le discipline collaterali secondano lentamente questo moto; per esempio, le discipline sperimentali sono entrate nel periodo positivo, ma la letteratura di tutti i popoli d'Europa è ancora improntata, è ancora intonata, per così dire, alla vecchia scuola del periodo mistico, metafisico.» Il Comte fa pochissime eccezioni, cita pochissimi libri, e, notate, nessun libro francese; ma conclude la sua breve enumerazione ricordando come ultimo libro uscito i Promessi Sposi e giudicandolo un libro sintomatico, un libro di significazione universale, un libro di cui i contemporanei non possono ancora apprezzare tutto il valore, ma che rappresenta proprio l'avvento della osservazione, il contatto immediato, sincero e genuino dell'artista con la natura; inizia insomma, letterariamente, quel terzo periodo che egli considera come il termine della evoluzione psicologica e intellettuale della civiltà europea.
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