fra Cristoforo, quando trova a tavola don Rodrigo. Ma non è forse quella conversazione medesima una pittura vera e fedele delle follie che passavano per la mente dei grandi d'allora? Dissero alcuni altri, che la storia di Lucia e di Renzo, cioè del matrimonio di due villici, è cosa troppo piccola per farne il soggetto di un'opera di tre volumi, ond'è che le parti accessorie soffocare dovevano il principale. Ma non è forse vero, che per questo appunto che il matrimonio di due villici è una piccolissima cosa, tanto più ne risulta quindi l'evidenza di questa gran verità, che in quei bruttissimi tempi, mentre i grandi, avendo paura uno dell'altro, si rispettavano a vicenda, tutta la loro prepotenza andava poi a scaricarsi nell'oppressione dei piccoli? Volete sapere dove io non saprei come validamente difendere il grande autore? Egli è sull'orrenda, scandalosa e ributtante comparsa, che malgrado l'industria usata dal religiosissimo autore nell'accennare le cose, fa nullameno in quest'opera quell'indegnissima monaca. Ben vedo e conosco che lo scopo morale del grand'autore, anche in questo caso, fu quello di far vedere a quali orrendi termini riesca una vocazione forzata, e quanto grande peccato era egli quello delle famiglie di un tempo, che monacavano le figlie per viste economiche e mondane affatto. Ma il danno e lo scandalo di quella pittura è troppo potente per concepire la speranza che fra cento lettori possano li novantanove raccogliere il frutto dell'esempio, e non rimaner invece amareggiati dal fiele. E se anche il danno non fosse che per uno solo?»51.
A Torino, Federico Govean così salutava la comparsa de' Promessi Sposi: «Mancava all'Italia un buon romanzo», che potesse rivaleggiare con quelli del Lesage, del Cervantes e dello Scott. «Sorse quella benedett'anima del Manzoni, onore e lume d'Italia, e non contento di avere tentato una forse dannosa rivoluzione nella drammatica, e di aver migliorata la lirica moderna, volle far dono all'Italia di un romanzo, ma di un vero romanzo; opera degna di non altro ingegno se non di quello che dettò la Pasqua e il Cinque Maggio». L'avv. Modesto Paroletti notava: «Un cospicuo letterato piemontese, che già ebbe tentato il romanzo allegorico, aveva quindi intrapreso di battere le orme di Walter Scott, pubblicando due storiette, scintillanti di erudizione… Nelle altre contrade d'Italia parecchi autori stavano in procinto di calar anch'essi nell'arena romanzesca per farvi pompa dei loro lavori, fra cui giova distinguere il Castello di Trezzo e la Battaglia di Benevento; e quelli in cui, fra i subalpini, un dottor tortonese faceva pur mostra di bell'ingegno, la Sibilla Odaleta cioè, seguita dalla Fidanzata Ligure. Ma la fama loro doveva ecclissarsi dal romanzo de' Promessi Sposi di Alessandro Manzoni: perchè, alla chiarezza d'un tanto nome, ottenendo quest'opera la maggiorità de' suffragi, allettando i più schivi, piacendo ai dotti e facendosi leggere da ogni persona, fu acclamata qual libro popolare in Italia». Ne loda lo stile, la scelta e la condotta dell'argomento. «Fra tutte le difficoltà non era la minore quella dello stile in cui si avesse a dettare. Dovendo purgarlo da ogni sentore d'imitazione straniera, perchè ai dì nostri ogni cosa si desidera nelle prette forme italiane, e dovendo nullameno renderlo grato pei modi del dire, ognuno può giudicare quanto malagevole fosse tal cosa; mentre, se importava di dare il bando ai modi francesi, per contro, era necessario lo schivare quell'andamento stucchevole che presenta all'orecchio dei più lo stile cruscante. E questa può affermarsi essere stata vittoria grande riportata dal Manzoni, perchè lo stile del suo romanzo è schietto italiano, senza macchia d'affettazione; è classico senza arcaismi; ed è purgato, non senza una qualche tinta di popolarità, che molto aggiunge alla verità de' ragguagli. Stile insomma da poter servire di modello a chiunque voglia scrivere romanzi italiani». Dopo averne con ammirazione schietta e sentita rilevato le grandi bellezze, tocca de' difetti. «È danno che questo libro, il quale da romanzesco può pigliar nome di storico, nelle parti più importanti diventi prolisso di soverchio e alquanto noioso. A lato delle inimitabili descrizioni rapide, vive e ben accennate, come quelle del lago di Lecco, della notte in cui battevano i bravi condotti dal Griso per rapire gli sposi, ed imprendevano questi a sorprendere il parroco, e poi del muoversi del P. Cristoforo da Pescarenico, e dello scappare Renzo di là dall'Adda, riprova il lettore un fastidio grande per le cotanto prolungate e sminuzzate due descrizioni della carestia e della pestilenza»52.
Il prof. Giuseppe Chiappa, dell'Università di Pavia53, dice che «i così detti romanzi istorici sono una sì fatta contraffazione dell'istoria che non possono venir lodati di giusta e sincera lode. Quel mescere il reale all'immaginario, quel confondere il vero al falso, e il naturale al fittizio, non può dare che una mostruosa opera e quasi ibrida e bastarda». Soggiunge però: «ma ove la finzione sia ben innestata sul fatto istorico, e che quella non sia che un colore, o mezzo, per isvolgere e mostrare lo stato reale delle cose, serbando in ogni luogo le leggi della convenienza e del verisimile, ne potrà risultare un utilissimo lavoro. E tale è il celebre romanzo del Manzoni». Ne tesse le lodi, ne segnala le bellezze; poi conclude: «Nessun altro romanzo venuto dopo, ha potuto appena toccare a un terzo della gloria durevole del romanzo di Alessandro Manzoni. Lo stile poi si è, quanto si richiede, convenevole al soggetto. Egli è vivo, animato, franco e pieno di forza. Solo si fa desiderare più purgata la lingua. Ma oltrechè finge l'A. averlo ridotto da una cronaca di que' tempi corrotti, egli non ha poi volto lo ingegno che alla chiarezza e all'evidenza, schifando ogni artificiosità e leziosaggine. Ed in ciò è ottimamente riescito, conciossiachè nulla siavi che in quanto a intelligenza abbia mai dato luogo a lagnanza. Ed in ciò egli ha conseguito il principale scopo di ogni scrittura, quello di rendersi intelligibile e chiarissimo a tutti»54.
Due de' nostri esuli, Giovita Scalvini e Pietro Giannone, presero a esaminare il romanzo del Manzoni. Giuseppe Pecchio scriveva da Brighton il 10 gennaio del '30 a Antonio Panizzi: «La Rivista italiana si stampa. [Pellegrino] Rossi ha scritto l'Introduzione, Scalvini un bellissimo articolo sui Promessi Sposi, [Giovanni] Arrivabene uno su gli Istituti de' poveri de' Paesi Bassi. Si spera di avere dei collaboratori tedeschi di primo grido. Si avranno traduzioni dallo svedese. Quindi mi si scrive che passò stagione di osservazioni, e giunta è quella di dar spalla all'impresa. È vero, e bisognerebbe sostenerla con decoro almeno per un anno»55. La Rivista ebbe vita, ma per due mesi soltanto, e vi fece la sua comparsa l'articolo dello Scalvini56; addirittura «bellissimo», anzi quanto di meglio venne allora pensato e scritto intorno a' Promessi Sposi. E fu giustizia il toglierlo dalla dimenticanza colpevole in cui giaceva, il ristamparlo e il divulgarlo57 a onore della critica e del nome italiano.
Il Giannone nel giornale L'Esule, che incominciò a stamparsi a Parigi nel settembre del '32 con a lato la traduzione in francese; e lo dirigevano Giuseppe Cannonieri, Angelo Frignani e Federigo Pescantini; non si limitò a parlare del romanzo, trattò anche del Carmagnola e dell'Adelchi, de' Carmi e degl'Inni sacri58. Del romanzo ne dette un largo sunto, poi pigliò a farne l'esame. «Un lettore difficile» (son sue parole) «esigerebbe forse un piano più magnifico, e condizione e caratteri meno comuni ne' due, che dan pure il titolo all'opera. Le avventure de' promessi sposi son esse le principali, a cui s'aggiungono come episodi il cappuccino Cristoforo, la monaca, il moto de' Milanesi, l'innominato, il cardinale, la fame, il passaggio d'un esercito, la peste e in generale la condizion di que' tempi, o viceversa? Renzo che è? Un filatore di seta, onestissimo giovine per altro, e, come dice egli stesso, un buon figliuolo, ma nè distinto per altezza di sensi, nè per vigor di carattere, nè per altro che dia lustro e importanza. Interessa, non per sè, ma per la persecuzione di Don Rodrigo. Ne' moti di Milano soltanto acquista qualche valor che gli è proprio, e nella costanza del suo amor per Lucia. Questa poi è anche minore di lui, e se non si trovasse nel castello dell'innominato, ov'è bella veramente e per dolore ineffabile e per isventura, la sua rassegnazione abituale ci parrebbe mancanza d'ogni umana affezione. Il medio evo offriva avvenimenti più splendidi e caratteri d'un'energia che spaventa, per così dire. Che importa che nell'avvilimento in cui sono gl'Italiani, sappiano che altre volte sono stati così, per trovare un esempio e una scusa forse alla loro ignavia presente? Nel vedersi presentare un quadro d'oppressione attiva da una parte e di passiva stupidezza dall'altra, si consoleranno forse perchè que' tristi tempi passarono, e soffriranno quindi