saranno più tra di noi!
«Firenze, 22 ottobre 1827. Ho terminato finalmente i Promessi Sposi, libro che, a malgrado del falso gusto, delle lungaggini eccessive, delle troppo minute descrizioni, e simili altre tedescherie, manifesta un grande ingegno nel suo autore, oltre l'animo gentile e gli egregi costumi».
Chi vide e gustò le bellezze de' Promessi Sposi appena che uscirono dal torchio fu Pietro Giordani; e da Firenze, dove allora abitava, andò manifestando agli amici le impressioni ricevute da quella lettura. Il 21 settembre del '27 scriveva a Francesco Testa14: «Del Manzoni siamo perfettamente d'accordo: eccellente pittore, benchè fiammingo. Egli è ora qui: amabilissima e modestissima persona: riverito e amato da tutti, onorato straordinariamente dalla Corte». E che nel romanzo ci sia del fiammingo, è vero; ma lì dove ha maggiore bellezza, bellezza ineffabile. Il 15 d'ottobre chiedeva a Lazzaro Papi: «È venuto costà [a Lucca] il romanzo di Manzoni? Com'è piaciuto?.. Manzoni fu qui molti giorni; ebbe grandi accoglienze da tutti; e straordinario onore dalla Corte. È uomo di molta e amabile modestia, e belle maniere… In Roma ora è proibito di vendere il romanzo di Manzoni, che pur vi entrò con amplissime licenze»15. Il 22 del mese stesso torna a scrivere al Testa: «Manzoni, amabilissimo per la modestia e la bontà e l'ingegno, dev'esser partito assai contento di Firenze, e più contento della Corte, che l'ha onorato straordinariamente. Del suo libro, poichè volete, vi dirò che mi è piaciuto. Ci vedo un'assai fedele pittura dello Stato di Milano in que' tre anni miserabilissimi 28, 29 e 30. Verità somma e finitissima ne' dialoghi e ne' caratteri. Nobilissimo il carattere del Cardinale: naturalissimi tutti gli altri inferiori: la. stolidezza e la ferocia dei dominatori stranieri efficacemente rappresentata: un modello di religione tollerabile, e anche utile. Cominciano a insorgergli contradittori al solito: ma credo che il libro vincerà e durerà. A me i difetti paion pochi e leggieri: i pregi moltissimi e non piccoli. E poi è il primo romanzo leggibile che sia sorto in Italia: è adatto a molte sorti di lettori: s'insinua nelle menti: vi germoglierà qualche buon pensiero. Eccovi contentato, mio caro: v'ho detto quel che penso; e non per politica, come m'imputano alcuni: e non pensano che uno che non si cura nè del papa nè dei re, non ha cagion di mentire per Manzoni, che biasimato non può mandarmi in galera, nè lodato può farmi cardinale o ciambellaio». Così ne scrive a Giuseppe Bianchetti il 13 decembre: «Il Romanzo di Manzoni mi par bello come lavoro letterario; ma stupenda cosa e divina come aiuto alle menti del popolo. Io credo che farà un gran bene; e i nemici del bene se ne accorgeran tardi. Grande amor del bene, e gran potenza e arte di farlo si vede in quell'ingegno». Di nuovo al Testa il 25 dello stesso mese: «Ho letto più di venti romanzi di Walter; e quanti ancora me ne restano!.. Non mi maraviglio che in tutta Europa piaccia molto il libro di Manzoni; e ne godo. In Italia vorrei che fosse letto a Dan usque ad Nephtali: vorrei che fosse riletto, predicato in tutte le chiese e in tutte le osterie, imparato a memoria. Se lo guardate come libro letterario, ci sarà forse un poco da dire; secondo la varietà de' gusti e delle abitudini. Ma come libro del popolo, come catechismo (elementare; bisognava cominciare dal poco) messo in dramma; mi pare stupendo, divino. Oh lasciatelo lodare: gl'impostori e gli oppressori se ne accorgeranno poi (ma tardi) che profonda testa, che potente leva è, chi ha posto tanta cura in apparir semplice, e quasi minchione: ma minchione a chi? agl'impostori e agli oppressori, che sempre furono e saranno minchionissimi. Oh perchè non ha Italia venti libri simili!» E al Bianchetti l'8 luglio del '31: «Bellissimo e utilissimo il vostro Discorso sui romanzi storici, che io credo si potrebbero far belli, e al nostro popolo proficui; purchè si seguisse la via di Manzoni. Ma chi ha la sua anima? Di tutti gli altri che ho veduti, nessuno mi piacque; anzi mi dispiacquero assai: imitazioni, e ben cattive e torte dello Scott. Invece di scrivere contro tal genere (se pur è vero che scrive) bisognerebbe pregare Manzoni che facesse un secondo lavoro simile; e sarebbe, una vera salute per la povera Italia. Gli altri, che dopo lui hanno guastato e guastano il mestiere, bisognerebbe pregarli a tacersi, e aspettare che sorga un Manzoni secondo»16.
Giambattista Niccolini a Firenze e Felice Belletti a Milano non si fidavano del proprio giudizio e aspettavano quello «del sesso gentile». Il Niccolini era «impaziente» da un pezzo di vedere i Promessi Sposi del Manzoni e I Lombardi alla prima crociata del Grossi, «avendo in gran concetto il loro ingegno»; come scrisse al conte Fracavalli il 20 decembre del '25. Nell'aprile del '26 chiedeva a Felice Bellotti: «Il romanzo del Manzoni quando uscirà?» Gli rispose il 29: «Del romanzo di Manzoni altra notizia non posso darvi, se non che tra un mese si comincerà la stampa del terzo ed ultimo tomo, essendo già finiti i due primi, che però l'autore non vuol dar fuori se non insieme con l'altro. Sicchè non penso che prima del luglio si potrà leggere». Il 2 agosto del '27 il Bellotti tornò a scrivergli: «Del Romanzo di Manzoni, del quale eravate curioso, or che l'avrete letto, che ve ne pare? Ha esso nel vostro senso adempiuta l'aspettazione che se ne avea? Le donne di Toscana lo leggono con piacere? poichè di tal genere di scritture alle donne principalmente, ed al popolo non idiota e non letterato, si vuol lasciare il giudizio, essendo principalmente diretto al loro trattenimento e vantaggio. Se non che moltissimo io stimo il giudizio di quei dotti (ma son pochi), i quali sanno farsi a giudicare anche di romanzi, messe da parte certe prevenzioni e pretensioni importune: e chi più di voi sagace nel discernere quali siano queste e più giusto nello scartarle?» Ecco la risposta del Niccolini: «Il Manzoni è qui, ed ho imparato a conoscerlo di persona: voi sapete che i buoni si credono volentieri grandi: ma non temo che l'affetto m'inganni, reputandolo il primo ingegno d'Italia17. Ho letto il suo romanzo tutto d'un fiato; ma non mi fido del mio giudizio, e aspetto anch'io quello del sesso gentile».
Il Rosmini piglia pure a ragguagliare gli amici intorno la fortuna del libro: «I Promessi Sposi sono avidamente letti, a malgrado della lunghezza, che da tutti sento notare»; così al Tommaseo, in un biglietto del 22 settembre '27. L'8 di novembre annunzia a un altro amico: «Il Manzoni trionfò in Toscana; il suo romanzo è tradotto in francese: si rende anche tedesco e parlasi d'una traduzione inglese. Sono di quei pochi uomini che fanno ancora varcare il mare e l'alpi il nome italiano». Il 22 di decembre torna a ripetere: «De' Promessi Sposi già se ne sono fatte tredici edizioni, credo, e traduzioni in tedesco, in inglese, in francese. Pochi libri italiani hanno mai avuto tanto favore in Italia». Al Manzoni poi scriveva il 26 marzo del '30: «qui i Promessi Sposi sono applauditissimi dal fiore di Roma; e quelli che non la cedono a nessuno in commendarli e in proporli alla gioventù sono i Gesuiti». Monaldo Leopardi lo conferma in una lettera a Giacomo: «Appena letto quel Romanzo ne fui rapito e lo giudicai prezioso non tanto alle lettere, quanto alla religione e alla morale. Ebbi poi molta compiacenza nel sentire che in Roma i confessori Gesuiti lo danno a leggere alle loro penitenti»18.
Nel settembre del 1827 Raffaele Lambruschini, discorrendo nell'Antologia di Firenze d'una ristampa del Quaresimale del Segneri e delle Prediche alla Corte del Turchi, ricordò, per incidenza, i Promessi Sposi, «che ora sono nelle mani di tutti; notabile produzione d'un uomo in cui non si saprebbe cosa ammirare di più, se i talenti o le doti del cuore, e di cui la nostra età e la nostra Italia hanno ragione d'inorgoglirsi». E nel ricordarli, ne riportò anche un brano: il colloquio tra il Cardinal Federigo e l'Innominato. «Si tratta» (così il Lambruschini), «da una parte, di un potente, rinomato per ardite ribalderie e per empietà, temuto ed odiato da tutti; dall'altra, di un sant'uomo, che trovandosi nella più ardita impresa a cui si possa accingere un sacro oratore, non adopra altre ragioni e altra eloquenza che quella dei semplici e degli umili»19. Lapo de' Ricci in una lettera inedita a Gio. Pietro Vieusseux, del 25 settembre 1827, piglia a dire: «L'articolo del Larabruschini è un capo d'opera nel suo genere; i preti non gliene sapranno buon grado, perchè vorrebbero dominare ed esser asini. L'ho letto a pezzi e brani a questo mio paroco, giacchè per l'intiero non era possibile farglici prestare attenzione, ma ne ho letto tanto per scuoterlo, e per commoverlo, finchè sentendo il sublime colloquio del Cardinal Federigo coll'Innominato ha dovuto piangere, ed ecco una vittoria per la morale». Lapo volle manifestare anche a Gino Capponi l'impressione profonda che aveva ricevuto dalla lettura de' Promessi Sposi, e gli scrisse il 4 gennaio del '28: «Non mi riesce di levarmi dal tavolino quel diavolo di Manzoni. Io credo