Federico Montuschi

Due. Dispari


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nuvola sbiadita di qualche minuto prima, nel frattempo, stava completando la propria opera di copertura della luna.

      Fu proprio durante uno di questi momenti di osservazione che, inaspettato, si verificò un black out; gli amplificatori del deejay erano degni di un concerto degli U2 e l’impianto elettrico dell’edificio non poteva essere dimensionato per reggere un simile carico.

      Il silenzio dirompente lo colse di sorpresa, ma ciò non gli impedì di percepire una specie di rantolo proveniente da una delle stanze che si affacciavano sul salone.

      Doveva essere un suono emesso da una ragazza, sembrava gutturale ma lui non riuscì a capire se si trattasse di un gemito di piacere o di dolore.

      Decise di restare immobile, tendendo solo le orecchie e non potendo evitare di sentirsi come un setter che cerca affannosamente di localizzare le fonti dei suoni percepiti.

      Il silenzio si fece avvolgente e, accompagnato dal buio pesto, gli provocò una sensazione di scomodità.

      Recuperò gli anfibi, si avvicinò alla porta di legno massiccio da cui aveva sentito i rumori e, delicatamente, abbassò la maniglia di ottone, che non oppose resistenza.

      Aprì la porta e si trovò in un’ampia stanza, nella quale, in un letto matrimoniale a baldacchino, due tipi in mutande sembravano accanirsi su una ragazza imbavagliata, nuda, legata per le mani alla testiera e per le caviglie alle gambe del letto, ai cui piedi erano ammucchiati i vestiti dei ragazzi.

      Uno dei due era chinato sull’ombelico della sventurata, mentre l’altro sembrava accarezzarla con vigore sul viso.

      Ebbe l’impressione che, più che carezze, si trattasse di tentativi per farle girare il viso e baciarla.

      Lei resisteva, pur sembrando totalmente senza forze, emettendo gemiti confusi in evidente stato di shock.

      La stanza era debolmente illuminata da candele sparse che emanavano un profumo di vaniglia intenso, che si mescolava con l’aroma della marijuana che altri due ragazzi stavano fumando, stravaccati su due vecchie poltrone rivestite di velluto verde.

      La corrente tornò dopo pochi minuti, inondando di musica la stanza, nella quale nessuno sembrò accorgersi del suo ingresso.

      I due giovani seminudi continuarono le molestie, fra risatine e sguardi d’intesa, mentre i due seduti, con gli occhi a mezz’asta, si passarono la canna battendosi un «cinque» con la mano libera.

      Incrociò lo sguardo della ragazza ed ebbe l’impressione che lei fosse sul punto di piangere, benché la sua espressione fosse talmente vacua da risultare difficilmente intelligibile.

      Non poté non ammirare il corpo nudo della giovane.

      La sua pelle era bianchissima, le gambe muscolose.

      I lunghi capelli lisci accarezzavano le spalle e le coprivano parzialmente il viso, scompigliati dalle mani dei due ragazzi sopra di lei.

      Aspirò un ultimo tiro di sigaretta, gettò il mozzicone dalla finestra aperta e si sedette sul letto, accarezzandole le gambe.

      Solo in quel momento i due che stavano fumando marijuana si resero conto del suo ingresso e, quasi stupiti da quell’approccio inatteso, iniziarono a battere a ritmo le mani, al grido di «Sesso, sesso!».

      Gli altri due, senza fretta, si sfilarono le mutande, strusciandosi sulla ragazza a ritmo con i battiti di mani degli amici.

      Togliendosi gli indumenti, si unì al coro degli stonati, iniziando ad accarezzare il corpo della malcapitata, dai cui occhi inumiditi iniziarono a scendere sottili lacrime salate.

      Di fuori, la luna della notte costaricana si perse definitivamente, oscurata del tutto dalle nuvole.

      L’orgia durò meno di dieci minuti ma, per lui, tanto bastò; l’eccitazione sfrenata, amplificata dall’effetto della marijuana, lo portò in brevissimo tempo a un orgasmo selvaggio e ansimante, che raggiunse mordendo le lenzuola sgualcite del letto a baldacchino e stringendo in estasi un lembo del cuscino.

      Poi si rialzò, si sistemò i capelli, raccattò i vestiti dai piedi del letto, e fece un ultimo tiro di canna prima di uscire dalla stanza.

      Stonato com’era, e con la vista offuscata, il salone del primo piano della villa gli sembrò girare su se stesso; ciò nonostante intravide nella penombra, nei pressi della grande scalinata, un ragazzo che sorreggeva la testa di un’amica, il cui corpo appariva abbandonato senza forze sulla moquette.

      Si volse immediatamente dall’altra parte, per evitare impicci, sperando di non essere notato.

      Ma il ragazzo, che appariva nervoso, gli chiese un aiuto, e i loro sguardi si incrociarono per un attimo fugace, impercettibile ma concreto, prima che lui, senza degnarlo di una risposta, scendesse le scale, diretto con andatura risoluta verso l’uscita della proprietà e passandosi di tanto in tanto le dita fra i capelli ancora sudati.

      Si rese conto di aver dimenticato nella camera da letto il cappellino da baseball, che gli avrebbe fatto comodo per coprirsi maggiormente il volto, ma decise di non recuperarlo per evitare di intercettare nuovamente quel tipo e la sua bella addormentata, forse svenuta.

      Attraversò il parco di fretta, con lo sguardo basso, facendo il possibile per evitare di incrociare gli sguardi della gente, arrivando al parcheggio con il cuore che batteva a ritmo superiore al solito, carico di adrenalina per l’esperienza di poco prima.

      Numerosi taxi attendevano i reduci della festa; lui si infilò nel primo disponibile e, una volta entrato nell’abitacolo, si annusò le mani, impregnate di sesso della ragazza misto a marijuana, e finalmente si rilassò, sforzandosi di vergare nella propria memoria la memorabile orgia.

      «Calle del Tesoro, grazie» disse con voce roca all’autista, rimanendo così, con gli occhi chiusi e le dita vicine alle narici, per qualche minuto, seduto sul sedile posteriore e cullato dagli echi della musica della festa, ormai lontano sottofondo di una serata unica, lasciandosi portare verso il suo destino.

      Era atteso a un appuntamento che, a breve, gli avrebbe cambiato la vita, ma non lo poteva sapere.

      ***

      Dal momento del black out, al piano terra la confusione aveva regnato sovrana.

      Nelly si sgolava per chiedere ai partecipanti di restare tranquilli, assicurando che entro breve il guasto sarebbe stato sistemato.

      Gli invitati, sull’onda dell’euforia della festa, non avevano perso l’occasione per intonare canti e balli, schiamazzando felici e incuranti dell’inconveniente.

      Ronald ne aveva approfittato per divincolarsi dall’abbraccio verbalmente tentacolare di una sua ammiratrice che da quasi mezz’ora lo stava annoiando, impedendogli di cercare Carmen.

      Si era fiondato nel giardino e aveva iniziato a chiamarla, tentando con scarso successo di sovrastare il volume dei cori dei festaioli ubriachi.

      Aveva cercato di amplificare la propria voce aiutandosi con le mani, appoggiate a mo’ di megafono ai lati della bocca, ma i risultati non erano migliorati; aveva quindi provato a rintracciarla sul cellulare, dimenticandosi che era stato smarrito proprio quel pomeriggio.

      Nel frattempo aveva iniziato a piovere, con grande soddisfazione dei reduci del ballo, sudati e stropicciati, fumati e bevuti, che approfittarono dell’acquazzone per una doccia rinfrescante a cielo aperto, improvvisando girotondi e canti da osteria, senza smettere di bere.

      Era rientrato in casa e, attraversando il salone da ballo ormai semivuoto, si era diretto verso la scalinata di marmo bianco, che aveva salito di corsa, saltando i gradini a due a due, facendo attenzione a non inciampare per il buio.

      Era arrivato nel grande salone con il tappeto blu scorgendo, appoggiata allo stipite di una porta, Carmen.

      Le ginocchia sembravano non riuscire a reggere il suo peso; stringeva in mano una bottiglia vuota di vodka e, a occhi chiusi, cantava a squarciagola una canzone inglese che non era riuscito a decifrare.

      Non si era accorta dell’arrivo dell’amico, che