Federico Montuschi

Due. Dispari


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nella mia vita» rispose Ronald con la consueta ironia.

      S’incamminarono nel giardino seguendo, più che le luci, il suono della musica, sparata dal deejay a volume assordante; l’adiacenza al camposanto, in fin dei conti, garantiva che gli unici vicini della tenuta non si sarebbero mai potuti lamentare del rumore.

       Misjudged your limits

       Pushed you too far

       Took you for granted

       I thought that you needed me more more more!

      « Boys don’t cry! Fantastica!».

      L’emozione di Carmen sorprese Ronald, che per la musica aveva un semplice interesse superficiale.

      «Ma come fai a riconoscere una canzone di trent’anni fa da due strofe orecchiate in sottofondo?» chiese guardandola dritta negli occhi, quasi a sottolineare il suo sentimento di sorpresa.

      Carmen rispose con nonchalance, senza girarsi verso di lui.

      «È una passione che mi ha trasmesso mio padre. Lui ha una cultura musicale sterminata e ha educato me e mia sorella a pane e rock, fin da piccole. E fin da piccole ci diceva titolo e autore di ogni brano e lo canticchiava nel suo inglese stentato che però ci permetteva di seguire il testo molto più facilmente che ascoltando le versioni originali, capisci?».

      «Certo. La paragonerei a una forma di bilinguismo. Avete assorbito quasi inconsciamente la sua cultura musicale, come i bambini figli di genitori di differenti nazionalità imparano gratuitamente le lingue di papà e mamma, senza alcuno sforzo. Una sorta di apprendimento per osmosi, via».

      «Più o meno...» rispose Carmen senza troppa convinzione, giusto un attimo prima di scorgere, poco dopo una leggera curvatura del sentiero sulla destra, l’ingresso al salone della festa.

      La musica era alta e l’impianto diffondeva con particolare potenza i bassi, che sembravano rimbombare negli stomaci dei ragazzi.

      Carmen e Ronald si buttarono in pista, illuminati da una strobo anni settanta che lanciava a intermittenza raggi fendenti di diverso colore, in pieno stile spade Jedi di Guerre Stellari.

      Carmen prese al volo uno shot di vodka con limone appoggiato sul vassoio di un cameriere che si aggirava fra la folla e lo bevette in pochi sorsi veloci, senza smettere di ballare.

      Le sembrò che la strobo aumentasse progressivamente la frequenza dei colpi Jedi e l’immagine le provocò un sorriso che, con quel po’ di carica aggiuntiva di vodka, divenne subito una risata.

      Un altro cameriere con due baffetti che sembravano dipinti passò velocemente fra i ragazzi e Carmen non si lasciò sfuggire lo shot di tequila, che tracannò senza pensarci.

      «Vacci piano, Carmen, che non sei abituata a bere» gridò Ronald, senza smettere di seguire il ritmo al centro della pista, cercando di superare con la voce i decibel della musica.

      Ma Carmen sembrò non sentire e, poco a poco, sparì nella bolgia danzante, fagocitata dall’entusiasmo dei ragazzi festaioli.

      ***

      Il taxi giunse nello spiazzo antistante al grande cancello della villa poco prima delle undici.

      Il confuso andirivieni di persone nella zona dell’ingresso non era cessato, benché la maggior parte degli invitati fosse già stata dirottata verso il salone dei balli e nell’adiacente zona bar, dove l’alcool scorreva libero e, soprattutto, gratis.

      La formula barra libre, nelle feste private, garantiva una percentuale di ubriachi ben superiore agli standard delle feste universitarie.

      Un uomo di media corporatura scese dal taxi, pagò senza chiedere il resto e senza indugio si avvicinò al portone.

      Sapeva, o forse temeva, che il suo arrivo sarebbe stato visto dai più come un fatto perlomeno anomalo, ma si sforzò di comportarsi nel modo più naturale possibile.

      Indossava una maglietta di cotone azzurra con una piccola stella bianca sulla schiena, jeans scuri attillati e un paio di anfibi neri con le stringhe bianche.

      In testa, portava un curioso cappellino rosso da baseball.

      Nelly faticò non poco a nascondere la sorpresa.

      «Padre Juan! Ma che piacere! Qual buon vento?».

      Era certa di non averlo invitato, ci mancherebbe, invitare un prete a un party universitario in campagna.

      Chissà com’era venuto a sapere della festa, e chissà cosa gli era scattato in testa per decidere di parteciparvi.

      Nelly notò un velo d’imbarazzo nel suo interlocutore e per superare il momento d’impaccio preferì spiegargli subito la strada per arrivare al salone.

      «Superi la fontana, segua il sentiero tenendo la destra, dopo poco troverà il posto, ok? Io arrivo fra pochissimo, sono già le undici, credo che gli invitati siano ormai tutti arrivati. E ho una voglia pazzesca di buttarmi in pista anch’io!».

      La ragazza ammiccò senza alcuna malizia, ricevendo come risposta un sorriso sfuggente, solo accennato.

      L’uomo si accese una sigaretta e s’incamminò, leggermente ingobbito, sul sentiero illuminato da piccole candele profumate.

      L’arrivo al salone principale della festa fu per lui come un pugno dello stomaco.

      Volume della musica altissimo.

      Al centro della sala, ragazzi con capelli rasta che battevano violentemente tre bidoni di metallo amplificati, in completa simbiosi con il ritmo della musica sparata dai subwoofer a duemila watt, che sembrava volersi fare largo a gomitate fra le viscere di ognuno dei partecipanti.

      Raggi di luce emanati dalla strobo che pendeva al centro del salone e profumi di dopobarba mescolati a odore di sudore nella calca.

      Camerieri in tenuta apparentemente informale, ma tutti con cravattino bianco come segno distintivo, che giravano senza sosta nella sala brandendo su una mano tenuta alta, appena sopra le teste degli invitati, vassoi argentati colmi di alcolici e superalcolici, che venivano svuotati dopo meno di un minuto dalla preparazione.

      Decise di restare ai margini della bolgia, appoggiato allo stipite della gigantesca porta finestra che in qualche meandro della sua memoria lo riportò a quanto studiato anni prima sulla concezione di architettura organica di Wright: garantiva la sostanziale continuità fra il grande salone e il parco antistante.

      Osservando di sottecchi la situazione, notò che, ogni tanto, qualcuno usciva dal girone infernale per prendere un po’ d’aria nello sterminato parco della tenuta, dove capannelli di ragazzi e ragazze si formavano con sorprendente rapidità e con altrettanta velocità si scioglievano, sopraffatti dal richiamo della musica, troppo intenso per restare a lungo in giardino a chiacchierare.

      Alzò gli occhi al cielo e notò come una lunga nuvola grigiastra stesse iniziando a velare la luna piena che, fino a quel momento, aveva dominato incontrastata la tiepida notte costaricana.

      «Facciamoci un giretto» pensò, camminando a passi veloci verso la grande scalinata di marmo bianco che, partendo dal fondo del corridoio, si ergeva solenne alle spalle della sala da ballo.

      La scalinata lo portò al primo piano, esattamente sopra il salone da ballo; nei momenti di maggior foga dei percussionisti, poteva sentire il pavimento vibrare.

      Notò due porte di legno massiccio, una sulla destra e una sulla sinistra, mentre di fronte allo sbocco delle scale, attraversato il salone a base ovale, un’altra grande vetrata, del tutto simile a quella del pian terreno, permetteva di godersi una vista invidiabile sul giardino antistante.

      La morbida moquette blu attutiva i suoi passi e questo gli diede la voglia di togliersi gli anfibi dai piedi, cosa che fece, proseguendo scalzo il suo giro esplorativo.

      Attraversò la stanza e si godette per dieci buoni minuti il panorama, cullato dal buio, godendosi con calma la sigaretta accesa poco prima e divertendosi