alla corda uncinata che O’Connor gli aveva mostrato prima della discesa, l’attrezzo di emergenza che usavano generalmente per scalare le mura durante un assedio. In caso dovesse servire, aveva detto O’Connor.
“O’Connor! La tua fune!” gli gridò Reece. “Lanciamela!”
Reece sollevò lo sguardo e vide O’Connor estrarre la fune dalla cintura, raddrizzarsi e conficcare l’uncino in una fenditura della parete rocciosa. Lo spinse con tutta la sua forza, ne testò diverse volte la tenuta e poi lanciò giù la corda, che si srotolò oltre Reece.
Non sarebbe potuta arrivare in un momento più appropriato. Il palmo sudato di Elden stava scivolando dalla presa di Reece e proprio mentre iniziava a cadere all’indietro, Elden allungò il braccio e afferrò la fune. Reece trattenne il fiato pregando che tenesse.
E così fu. Elden lentamente si tirò su, fino a che trovò un saldo punto d’appoggio. Si mise in piedi su un pianerottolo, con il fiatone, di nuovo in equilibrio. Fece un profondo sospiro di sollievo e lo stesso fece Reece. C’era veramente mancato poco.
Continuarono la discesa fino a che Reece non seppe quanto tempo fosse passato. Il cielo si fece più scuro e Reece era madido di sudore nonostante il freddo. Gli sembrava che ogni momento potesse essere l’ultimo della propria vita. Le mani e i piedi gli tremavano violentemente e il suono del suo respiro affannoso gli riempiva le orecchie. Si chiese quanto ancora avrebbe potuto resistere. Sapeva che se non avesse trovato presto il fondo avrebbero dovuto fermarsi a riposare, soprattutto con il calare della notte. Ma il problema era che non c’era un posto dove potersi fermare.
Reece non poteva fare a meno di chiedersi se, in caso fossero diventati troppo stanchi, avrebbero iniziato a cadere tutti, uno alla volta.
Si sentì improvvisamente un forte rumore di roccia e poi una piccola frana, decine di sassi, iniziarono a piovere verso il basso cadendo sulla testa di Reece, sul viso e negli occhi. Gli si fermò il cuore quando udì un grido, diverso questa volta: un grido di morte. Con la coda dell’occhio vide precipitare accanto a sé, quasi troppo velocemente per poterlo vedere, un corpo.
Reece allungò una mano per afferrarlo, ma accadde tutto troppo in fretta: tutto ciò che poté fare fu voltarsi e vedere Krog, in volo che si dimenava e gridava, cadendo di schiena verso il nulla.
CAPITOLO TRE
Kendrick era in groppa al suo cavallo, affiancato da Erec, Bronson e Srog, di fronte alle loro migliaia di uomini mentre si apprestavano ad affrontare gli uomini di Tiro e l’Impero. Erano finiti dritti in trappola. Erano stati venduti da Tiro e Kendrick si era reso conto troppo tardi di aver fatto un errore madornale a fidarsi di lui.
Kendrick guardò in alto alla propria destra e vide diecimila soldati dell’Impero proprio al limitare della valle, con le frecce pronte. A sinistra ce n’erano altrettanti. E davanti a loro ancora di più. Le poche migliaia di uomini che costituivano il suo esercito non avrebbero mai potuto sovrastare una tale quantità di nemici. Sarebbero stati macellati solo per aver tentato. E con tutti quegli archi spiegati la minima mossa avrebbe determinato il massacro dei suoi uomini. Logisticamente neppure trovarsi alla base della valle costituiva un aiuto. Tiro aveva scelto accuratamente il luogo per la sua imboscata.
Mentre Kendrick sedeva lì, impossibilitato a fare qualsiasi cosa, il volto contratto per la rabbia e l’indignazione, fissò Tiro che sedeva in groppa al suo cavallo, fiero e con un sorriso di pieno compiacimento in volto. Accanto a lui si trovavano i quattro figli e lì vicino un comandante dell’Impero.
“Il denaro è talmente importante per te?” chiese Kendrick a Tiro, a poco più di tre metri da lui, la voce fredda come l’acciaio. “Hai il coraggio di vendere la tua stessa gente, il tuo stesso sangue?”
Tiro non mostrava alcun rimorso e sorrise ancor più soddisfatto.
“Il tuo popolo non sono il mio sangue, ricordi?” disse. “È per questo che, secondo la tua legge, non sono designato ad avere il trono di mio fratello.”
Erec si schiarì la voce furente.
“Le leggi dei MacGil fanno passare il trono di padre in figlio, non di fratello in fratello.”
Tiro scosse la testa.
“Del tutto irrilevante ora. Le vostre leggi non contano più. La forza trionfa sempre al di sopra della legge. Sono quelli che detengono il potere a dettare legge. E ora, come potete vedere, sono io il più forte. Il che significa che da ora in poi sono io a dettare la legge. Le generazioni future non ricorderanno nessuna delle vostre leggi. Tutto ciò che ricorderanno sarà che io, Tiro, sono stato re. Non tu, né tua sorella.”
“I troni presi illegalmente non durano mai a lungo,” lo rimbeccò Kendrick. “Puoi anche ucciderci, puoi anche convincere Andronico a garantirti un trono. Ma sia tu che io sappiamo bene che non regnerai a lungo. Verrai tradito dalla medesima slealtà che hai usato contro di noi.”
Tiro rimase al suo posto, per niente scosso.
“E allora mi godrò questi brevi giorni di potere finché durano e applaudirò l’uomo che mi tradirà con la medesima abilità che ho saputo usare io con voi.”
“Basta parole!” gridò il comandante dell’Impero. “Arrendetevi ora o i vostri uomini moriranno!”
Kendrick lo fissò furioso, sapendo che doveva arrendersi, ma per niente desideroso di farlo.
“Deponete le armi,” disse Tiro con voce calma e rassicurante, “e vi tratterò bene, da guerriero a guerriero. Sarete miei prigionieri di guerra. Posso anche non condividere le vostre leggi, ma onoro il codice di battaglia di un guerriero. Vi prometto che sotto la mia sorveglianza non vi verrà fatto alcun male.”
Kendrick guardò Bronson, poi Srog ed Erec, che ricambiarono lo sguardo. Rimasero tutti lì, tutti valorosi guerrieri in groppa a cavalli scalpitanti, in silenzio.
“Perché dovremmo fidarci di te?” chiese Bronson a Tiro. “Tu che hai già provato che la tua parola non significa nulla. Ho intenzione di morire qui sul campo di battaglia, giusto per spazzare via quel sorrisetto spavaldo dalla tua faccia.”
Tiro si voltò e guardò Bronson con espressione accigliata.
“Parli anche se non sei un MacGil. Sei un McCloud. Non hai il diritto di immischiarti negli affari dei MacGil.”
Kendrick venne in difesa dell’amico: “Bronson è tanto un MacGil quanto ciascuno di noi, ora. Le sue parole danno voce ai pensieri dei nostri uomini.”
Tiro digrignò i denti, chiaramente irritato.
“A te la scelta. Guardati attorno e vedi le nostre migliaia di arcieri già pronti in posizione. Sei stato fregato. Se solo allunghi le mano alla spada, i tuoi uomini si troveranno morti sul posto all’istante. Chiaramente puoi vederlo. Ci sono momenti per combattere e momenti per arrendersi. Se vuoi proteggere i tuoi uomini farai ciò che qualsiasi bravo comandante farebbe. Deponi le armi.”
Kendrick serrò la mandibola, sentendosi avvampare. Per quanto odiasse ammetterlo, sapeva che Tiro aveva ragione. Si diede un’occhiata attorno e capì all’istante che la maggior parte dei suoi uomini, se non tutti, sarebbero morti lì se solo avesse provato a combattere. Per quanto volesse lottare, sarebbe stata una scelta egoista, e per quanto disprezzasse Tiro, sentiva che diceva la verità e che ai suoi uomini non sarebbe stato fatto del male. Fino a che sarebbero vissuti, avrebbero sempre potuto lottare in un altro momento, in qualche altro luogo o su qualche altro campo di battaglia.
Kendrick guardò Erec, un uomo con il quale aveva combattuto innumerevoli volte, il campione dell’Argento, e capì che anche lui stava pensando la medesima cosa. Era diverso essere un capitano o un semplice guerriero: un guerriero poteva combattere con abbandono e avventatezza, ma un capitano doveva pensare per prima cosa agli altri.
“C’è un tempo per le armi e un tempo per la resa,” dichiarò Erec. “Prenderemo per buona la tua parola di guerriero che ai nostri uomini non venga fatto alcun male, e a questa condizione deporremo le nostre armi. Ma se violerai la tua parola, che Dio abbia pietà dell’anima tua, tornerò dall’inferno per vendicare ciascuno dei