Andrea Calo'

Lo Senti Il Mio Cuore?


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due nipotini Claire e Tommy sarebbero venuti a casa mia per cena. “Casa mia”. Mi meravigliavo di quanto fosse semplice adattarsi alle cose. Tuttavia pur girando in tondo come un clown colpito da uno schiaffo in pieno viso, non riuscivo a scorgere nessun altro pronto a parlarmi, a chiamarmi, a ricordarmi ancora una volta quanto io fossi bella per lui. Rose mi aveva lasciata per qualche ora subito dopo la cerimonia, doveva sbrigare alcune faccende e saldare il conto per il funerale. Io avrei dovuto dare retta ai restanti parenti e amici, ognuno dei quali voleva ricordarmi con le sue parole quanto mio marito fosse stato importante per me e quanto io lo fossi per lui. Parlavano, intervallando parole a freddi abbracci di convenienza che non sapevano di nulla, non esprimevano calore, non emanavano odore se non quello pungente della naftalina che aveva protetto i loro abiti fino a quel giorno e tirati fuori ancora una volta per l’occasione. Molto spesso le persone si rincontrano solo in occasione di matrimoni e funerali, per molti di loro fu davvero così. Quella sera stessa sarebbero stati riposti nelle loro custodie plastificate, cosparsi nuovamente di puzzolenti palline di naftalina insieme ai fazzoletti ancora ripiegati e sui quali nessuno aveva versato una lacrima sincera. L’esercito del commiato a turno mi scuoteva, mi percuoteva l’anima con parole studiate e acuminate come gli aghi sul guscio di un riccio di castagno, attendendo di vedere una lacrima sgorgare dai miei occhi, come estrema esternazione del mio dolore, della mia vulnerabilità. Solo allora si sentivano appagati, potevo percepire il loro ego esclamare “Era ora! Finalmente ce l’ho fatta a strapparle una lacrima!”. E io li accontentavo, nella speranza di far placare anche il mio dolore, la mia sofferenza, l’amaro sapore della solitudine che mi aspettava. Fotografavano quella lacrima, rubandola dai miei occhi per portarsela via come ricordo, come un trofeo vinto nella più estenuante delle battaglie. Per la loro vittoria avevano ricevuto in premio la mia sconfitta e mi toglievano la vita ogni volta che, dopo tutto questo, mi dicevano “Su dai, ora non piangere. La vita continua”.

      Il tramonto stava arrivando. Lui passava sempre qualche minuto in giardino, seguendo il sole nell’ultimo tratto del suo viaggio verso la notte. In quei momenti io raramente uscivo fuori con lui, preferivo starmene quieta in casa ad osservarlo dalla finestra con la tenda lievemente scostata, quanto bastava per vederlo ma senza correre il rischio di essere scoperta. Se m’avesse visto mi avrebbe sicuramente invitato ad uscire con lui ma io preferivo osservare a pieni occhi la mia cartolina monocromatica, perché con lui dentro mi sembrava molto più bella. Scorgevo la sua sagoma nera che si confondeva con il paesaggio, il nuovo tronco entrato a far parte della mia vita per poi diventare prima albero, poi legno stagionato, infine polvere chiusa in un freddo vaso di metallo grigio. Ma io allora vedevo solo il mio albero e la prospettiva che mi regalava la fortunata posizione di quella finestra me lo rendeva più alto e possente di tutto il resto. Se ne restava lì fermo, immobile, lo sguardo perso dentro il rosso infuocato del cielo che non voleva ancora arrendersi alla notte che incessantemente bussava alla sua porta, chiedendogli di farsi da parte. “Che bella è la vita!”, vibravano le parole che cavalcavano la mia anima, tracciando una invisibile linea di brividi lungo la schiena che non riuscivo a seguire senza far scuotere il mio corpo. “Il tramonto come atto finale del giorno non è altro che l’inizio di una nuova alba. Quella che verrà, sempre se ce la saremo meritata”. Avevamo anche assistito all’alba lui ed io. Capitava spesso nelle notti d’estate, quelle calde e soffocanti fatte di silenzi interrotti dai fastidiosi ronzii delle zanzare assetate di sangue, assetate di vita. Non ci pungevano ma non ci permettevano nemmeno di dormire bene. Quando ci trovavamo lì nel letto, entrambi svegli con gli occhi spalancati e le gambe tenute aperte per non sudare, il più delle volte occupavamo il tempo facendo l’amore. Ma un mattino mi sorprese. Tornato dalla toilette si avvicinò a me sussurrando al mio orecchio “Melanie, vuoi assistere alla nascita di una nuova vita oggi? Sarà un’esperienza nuova, ti piacerà!”. Io non capivo cosa intendesse dire. Avevo dato alla luce Rose un bel po’ di anni prima e avevo lavorato per anni come infermiera e assistente al parto in ospedale prima di fuggire via dalla città della mia infanzia. Perché mi chiedeva se volevo assistere ad un parto? Declinai l’invito, rispondendo che alla fine tutte le nascite sono uguali e quell’esperienza l’avevo già vissuta troppe volte, fino alla nausea. “Ma il sole nasce ogni giorno in modo diverso. Le nuvole nel cielo, quando ci sono, regalano sfumature rosa diverse e irripetibili. Sei certa di volerti perdere tutto questo? Potrebbe non tornare mai più, sai?”. Con le sue parole scomparve anche l’ultimo residuo di sonno e un istante dopo ci trovammo seduti sulla nostra panca in giardino, quella più bella, quella che regalava la migliore vista sul lago. Restammo così appoggiati l’una all’altro, avvolti dal silenzio mentre la magia della vita partoriva un nuovo giorno. Le zanzare erano rimaste tutte in casa, dee della notte che temevano l’arrivo della luce del nuovo giorno, così come Satana teme la luce di Dio. E il primo vagito del nuovo nato fu un debole raggio di luce che ebbe però la forza di arrivare fino a noi, rischiarando i nostri volti, riscaldando al meglio che poteva le nostre mani. Lo baciai, lui fermo per assaporare il gusto delle mie labbra ancora una volta. Non osai chiedergli che gusto avessero, lo capii da sola. Capii che erano speciali per lui, come lui lo era sempre stato per me. Speciale come il modo in cui lui mi aveva fatto accogliere quel nuovo giorno, il primo vagito della vita. Unico come il modo in cui era tornato ad abitare nella mia stessa esistenza, riempiendo la mia vita con la sua presenza.

      Rose entrò in casa usando il suo mazzo di chiavi. Andava fiera di quel mazzetto di ferraglia che desiderava possedere fin da quando era piccola, quando mi diceva sempre che tutte le sue amichette ne avevano uno, che i loro genitori avevano deciso di darglieli perché si fidavano di loro. Non capiva quindi perché io fossi di parere totalmente contrario, non condivideva il motivo delle mie paure. Suo padre era invece accomodante come sempre, la maggior parte dei vizi che Rose aveva avuto portavano la sua inconfondibile firma. Nei momenti dell’esasperazione affermavo spesso con fastidio che se Rose un giorno si fosse persa, anche un turista di passaggio avrebbe capito subito di chi fosse figlia e ce l’avrebbe riportata. Rose era la sua copia al femminile. Aveva i suoi stessi occhi, il suo naso, la sua fronte allungata e candida, così come candidamente bianca, quasi pallida, era la sua pelle. Riuscivano a capirsi per mezzo di discorsi fatti di interminabili silenzi. Io spesso mi sentivo tagliata fuori e cominciavo a parlare con me stessa, per farmi compagnia. Al compimento del sedicesimo anno d’età decidemmo di accontentare Rose. Preparammo un mazzetto di chiavi e lo impacchettammo come se fosse stato un regalo. Lui prese un foglio di quella carta che lui stesso preparava e con il pennino ad inchiostro che usava per le occasioni speciali vi scrisse sopra “Per la mia piccolina che diventa donna”. Me lo porse perché io potessi leggerlo, forse attendeva il mio consenso ma so per certo che se anche gli avessi detto che per me non andava bene, lui non avrebbe cambiato nemmeno una delle parole che aveva scritto su quel biglietto. Toccai più volte quella carta durante un periodo della mia vita, vidi spesso le sue parole impresse su di essa con quella stessa calligrafia, l’inchiostro nero leggermente velato che a stento copriva le imperfezioni di quel supporto fatto in casa. Quando Rose aprì i suoi regali e trovò le chiavi pianse. Pianse al punto tale che cominciai a temere di aver fatto la cosa sbagliata. Avevamo confermato la nostra fiducia in lei e questo per Rose era una cosa davvero importante.

* * *

      «Ciao mamma, siamo arrivati!».

      «Ciao Rose, venite! Ciao Mike! Ciao angioletti miei!».

      Mike e i miei nipoti mi abbracciarono, Rose mi baciò stringendomi forte a lei. Claire era triste e come Rose non riusciva a nascondere i suoi sentimenti. Tommy saltava come un canguro per la casa, per smaltire le energie in eccesso che aveva accumulato. Era un vero trambusto e in sua presenza ogni luogo prendeva vita.

      «Claire, tesoro! Non devi essere triste. Dove hai nascosto il tuo bel sorriso?».

      «Claire ha ricevuto una brutta notizia oggi», disse mia figlia Rose mentre le accarezzava teneramente la testa, «Oltre al funerale del nonno ha dovuto ingoiare anche il rospo di sentirsi lasciata da Morgan, il suo fidanzato».

      «Morgan ti ha lasciata oggi?», le chiesi io fingendo una esagerata espressione di stupore.

      «Si, quello stupido idiota! Mi ha lasciata con un messaggio sul telefono. Non ha avuto nemmeno il coraggio di parlarmi, di guardarmi in faccia quel codardo!».

      «Oh, capisco! E che cosa dice quel messaggio?».

      «Dice che mi lascia. Che cosa vuoi che dica?».

      «Le