stata avvistata da nessun osservatorio, da nessun telescopio. Si dice che quando si muore si diventa stelle. E’ bello pensare che potrebbe essere davvero così. L’accarezzai e notai che stava piangendo, quindi iniziai il mio racconto.
2
Era il mattino del 13 Settembre 1964 quando salii sul treno che da Charleston, nel West Virginia, mi avrebbe condotta a Cleveland, nell’Ohio. Avevo trentacinque anni, avrei dovuto essere una donna matura a quell’età. Ero cresciuta da un punto di vista biologico, questo si. A tratti mi sentivo persino invecchiata. Fuggivo, da qualcosa o da qualcuno. Scappavo via da una esistenza sbagliata, da un cumulo di eventi e situazioni che non mi appartenevano più. Avevo sentito dire che si capisce davvero che ci si sta allontanando per sempre da un luogo se al momento della partenza non si sente il desiderio di voltarsi per dare un ultimo sguardo all’ultima fotografia scattata sul proprio passato. Per giorni mi allenai, figurando quel momento fondamentale per la mia ripartenza, lo sguardo fisso in avanti con il mio tempo trascorso che veniva cancellato da ogni passo. Se la vita fosse stata un nastro di raso, guardando indietro la mia avrei visto solo un pezzo di stoffa lacerato, sgualcito e privato del suo colore originale. Annodato qua e là per segnare le tappe principali della mia esistenza, perché non potessero più essere dimenticate per errore o per mia volontà. Le tappe della mia vita o quella delle persone che avevano sempre deciso tutto in mia vece, i tutori e garanti della mia esistenza, assistenti di una povera ragazza menomata incapace di intendere e di volere. Si erano appropriati della mia vita e in essa avevano cercato e trovato una possibilità di riscatto delle loro miserevoli esistenze. Non notavo alcuna differenza tra le mie scelte e le imposizioni che mi venivano fatte, nonostante io mi sforzassi continuamente di cercarle per convincermi che era giusto così, che mi avevano insegnato le cose giuste, che io ero davvero la loro figlia e quindi avevano tutto il diritto e il dovere di esercitare su di me il loro possesso. Anche quello estremo. Più volte sentii mia madre piangere di nascosto nella sua camera da letto quando mio padre non c’era. Singhiozzi e lacrime amare soffocate in un lembo di stoffa, quelle stesse lenzuola che l’avvolgevano durante le sue notti insonni, passate a ripensare alla sua esistenza, alla sua vita rubata da un uomo che non la trattava meglio di quanto non trattasse le sue stesse scarpe. Quelle almeno le lucidava, ogni tanto. E quando non lo faceva doveva pensarci mia madre, altrimenti erano botte. Molte sere lo sentii rincasare molto tardi, ubriaco fradicio, un barcollante rifiuto di vita annegata in botti di Gin e Whisky. Gridava, incurante dell’ora e della moglie che forse dormiva o forse era rimasta sveglia in pena per lui, timorosa di come l’avrebbe ritrovato o di cosa le avrebbe fatto quella notte. Mio padre la picchiava spesso. La picchiava se lei fingeva di dormire quando lui entrava in camera al buio come un fantasma, sbattendo la porta contro il muro nell’intento di mantenersi in piedi. La picchiava se lei gli andava incontro per aiutarlo a sorreggersi, a cambiarsi o a coricarsi anche vestito. Tutto andava bene, purché quella notte passasse in fretta. Ma con quella notte se ne andava anche un pezzo della sua vita. Mamma attendeva che l’orco si addormentasse, poi andava in bagno e con un panno inumidito di acqua fresca tamponava i segni delle percosse ricevute. Io la sentivo, sentivo i suoi singhiozzi di dolore per quei colpi ricevuti su un volto che ormai non mostrava più espressione, forma o colore. Poi mia madre veniva da me. Mi trovava spesso sveglia, con gli occhi sbarrati in preda al terrore per ciò che vedevo impresso sul suo viso ogni volta. Tra le braccia soffocavo il mio orsetto di pelouche, immaginando e desiderando che fosse mio padre la mia vittima di quella notte. Quell’orsetto era uno dei pochi regali che avevo ricevuto da lui, per un compleanno di tre anni prima, quando ancora era un uomo occasionalmente sano. Grazie a lui imparai ad odiare il prossimo, quando al contrario una bambina dovrebbe solo imparare ad amare. Mia madre mi rassicurava, mi diceva che tutto presto sarebbe finito e che non avevo nulla da temere perché papà era solo un po’ stanco, aveva avuto una giornata difficile e una vita complicata, aveva dovuto sopportare situazioni dolorose come quella volta in cui un suo compagno di camerata e suo miglior amico morì tra le sue braccia, dilaniato da una delle decine di migliaia di granate fatte esplodere durante la seconda guerra mondiale, durante la quale lui aveva combattuto. Me la raccontava sempre, non se la risparmiava mai. Quasi a voler giustificare il comportamento di quell’uomo che non riconosceva più in nessuno degli aspetti che tanti anni prima l’avevano attratta, facendola innamorare di lui, convincendola che era per lei la persona giusta e che l’avrebbe sposato. Ed io per compiacerla fingevo sempre di sentirla per la prima volta, me ne stavo lì raccolta nel mio lettino in silenzio e quando mia madre finiva il suo racconto di quella sera io mi avvicinavo a lei per abbracciarla e per accarezzare i segni delle percosse, per capire quanto potessero farle male. Lei invece interpretava quel semplice gesto da parte mia come un immenso gesto d’amore che la ripagava di tutto, che la convinceva sul fatto che tutto sommato valeva ancora la pena di continuare a vivere per qualcuno. Per me. Mi chiedeva scusa mentre lentamente lasciava la mia camera, solo più tardi capii che si stava scusando per avermi messa al mondo. Le labbra disegnavano sul suo volto martoriato un debole sorriso, per me rassicurante perché non capivo ancora, non capivo tutto. Ma sapevo! Sapevo che mia madre stava ritornando nella tana dell’orco. Nascondevo la mia testa sotto le coperte, tremante. Vedevo un orco affamato con sembianze umane, quelle di mio padre, che io imbruttivo ulteriormente con il potere della mia fantasia di bambina. L’orco banchettava con i resti della mia mamma, facendone a brandelli le carni con i suoi denti aguzzi. Erano immagini così reali che mi pareva di sentire l’odore del suo sangue versato nel mio letto. L’orco mi chiamava, mi ordinava di entrare nella sua tana e mi porgeva un pezzo del suo corpo, la sua mano. Quella stessa mano che pochi istanti prima mi aveva accarezzato ora era lì inanimata davanti agli occhi potenti della mia mente. Quell’incubo mi accompagnava spesso per tutta la notte e per tutto il giorno seguente, nonostante le ombre e gli spettri che abitavano il buio avessero ceduto il passaggio alla luce del giorno. Era una tortura destinata a perdurare per tutta la mia vita. Ma accadde un fatto che riuscì a spezzare quel malefico incantesimo. Tutto svanì a partire dal giorno in cui, tornando dal college, trovai mia madre morta nel bagno. Era immersa in un lago di sangue, con i polsi lacerati dal freddo profilo di acciaio di una lametta. L’orco era entrato dentro di lei e da dentro l’aveva combattuta, consumandola goccia dopo goccia. Ma il moncone di candela ormai disciolta non aveva ancora scoperto completamente il suo stoppino e la fiamma era ancora accesa, seppur flebile. Lei, piccola e semplice donna privata della sua identità, aveva trovato il modo per sconfiggere il suo orco. Lo aveva fatto a modo suo, proprio quel giorno. E fu la sua vittoria più grande. Quel mattino mia madre mi consegnò per la prima volta il suo mazzo delle chiavi di casa. Io avevo finalmente raggiunto il mio traguardo, la mia maturità, sentivo di aver conquistato la sua fiducia anche se senza alcun merito particolare. Ma a mia insaputa anche lei sentiva di aver raggiunto il suo. Avevo ventidue anni quando iniziai ad accudire l’orco, a soddisfare da sola ogni suo desiderio, anche quello più malato. Le sue mani, i suoi piedi e tutto il suo corpo erano ora dedicati a me, solo a me. Ero rimasta da sola. La mia compagna di sventura mi aveva abbandonata, ormai troppo stanca per proseguire con me in quel gioco. Stanca di tutto, stanca della vita. Tre lunghi anni passarono prima che finalmente riuscissi a liberarmi di lui, anni che mi lasciarono totalmente priva di ogni dignità, denudata come donna e come essere umano. Cercai un lavoro presso l’ospedale come infermiera e stranamente mi accettarono subito. Quella fu la mia prima vera salvezza. Buttai i ricordi della mia dura infanzia nel cassonetto dell’immondizia che stava proprio davanti casa e radunai i miei quattro stracci ancora buoni, quelli che non avevo mai tenuto addosso mentre lui mi violentava, che non puzzavano del suo sperma, del suo vomito intriso di alcol e del mio sangue. Trovai una casa in affitto fuori città, poco dignitosa ma ci si poteva vivere. In fin dei conti che cosa ne sapevo io della dignità? Pagai l’anticipo con i pochi soldi che ero riuscita a racimolare grazie a piccoli lavori che persone di buon cuore nel vicinato avevano voluto assegnarmi. Erano a conoscenza della mia condizione di orfana di madre suicida e della brutta situazione nella quale mi dovevo sicuramente trovare per via di un padre indegno e con il quale avevano già avuto malauguratamente a che fare ben più di una volta. Avevo conservato gelosamente quel denaro in una cassetta di metallo nascosta sotto un’asse del pavimento, in attesa che arrivasse per me il momento giusto per poterlo utilizzare. L’orco non mi aveva mai permesso di andare a lavorare, non avrebbe mai voluto che io guadagnassi dei soldi miei, che diventassi autonoma e magari forte quanto bastasse per trovare il coraggio di andare a denunciarlo alle autorità. Affermava di essere lui stesso l’autorità, io ero una cosa sua e tale sarei