Andrea Calo'

Lo Senti Il Mio Cuore?


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ucciso signorina Warren, mi dispiace. La dinamica dell’accaduto non ci è ancora chiara, il caso è aperto e tutte le investigazioni del caso sono in corso. E’ stato raggiunto da tre colpi di pistola, dei quali uno diretto alla testa gli è stato fatale. I vicini hanno sentito degli spari, tre colpi ravvicinati sparati da un’auto in corsa. Quando sono usciti hanno visto il corpo di suo padre riverso a terra, immerso in una pozza di sangue. Era privo di sensi ma ancora vivo. E’ morto poco dopo, durante il trasporto in ospedale. Sembrerebbe essere stata una vera esecuzione, un regolamento di conti».

      Rimasi in silenzio, stranamente tranquilla, quasi rilassata. Non tradivo alcuna emozione. I miei occhi fissavano le mie gambe, senza vederle, il sudore freddo era scomparso, le mie mani si erano aperte lasciando finalmente libera la stoffa della gonna, il cuore era tornato a battere in modo regolare. Stavo bene, maledettamente bene. Mi pentii per quel sentimento di cruda cattiveria, mi pentii anche del mio stesso pentimento verso quel sentimento naturalmente espresso.

      «Signorina, si sente bene?».

      Annuii, tutto andava molto bene.

      «Era ubriaco?».

      «No. Non era ubriaco, il livello di alcol nel sangue era nella norma».

      Lo guardai dritto negli occhi, non potevo credere a quella favoletta a lieto fine, dove tutti i cattivi diventano improvvisamente buoni e vivono il resto dei loro giorni felici e contenti. O forse mio padre era davvero cambiato dopo la mia scomparsa?

      «Suo padre beveva? Si ubriacava spesso?».

      Mentire! Negare il dolore del marchio rovente della menzogna impresso sulla pelle dell’anima! Imperativo!

      «E’ capitato, come può capitare a tutti anche nelle migliori famiglie».

      «Che rapporto c’era tra lei e suo padre?».

      Attimi di palpabile insicurezza, ricerca di parole false e quindi assenti. La ricerca di una verità che non mi apparteneva. Desiderio di mettere per sempre la parola “fine” a tutto. Era l’occasione giusta, quella che stavo aspettando.

      «Un rapporto normale quale può essere un qualunque rapporto tra un padre ex militare e una ragazza».

      «Era molto rigido suo padre con lei?».

      Non risposi, esitai. Lo guardai per un istante, quasi affrontandolo, poi cedetti e allontanai nuovamente lo sguardo da lui.

      «Le ha mai fatto del male? L’ha mai picchiata?».

      Mentire, ancora una volta! Perseverare nella vergogna per salvare la faccia!

      «No…».

      «No? Ne è davvero sicura?».

      «Si, sono sicura agente…».

      «Bene. Da quanto tempo ha lasciato la casa di suo padre?».

      «Da cinque anni».

      «Dal 1955 quindi», ripeté mentre prendeva nota sul suo taccuino.

      «Posso chiederle il motivo?».

      «Per farmi una mia vita agente! Avevo già ventisei anni, non avevo una casa, una famiglia tutta mia, un lavoro! Volevo la mia indipendenza, la mia autonomia. Ero stanca di farmi mantenere e di dover implorare la gente per avere qualche cosa per me, per i miei vizi e tutto il resto».

      L’agente prendeva nota, impassibile e senza guardarmi, come un giornalista durante una intervista fatta al campione di baseball del momento. M’infastidiva terribilmente quel suo atteggiamento di normalità e sufficienza, quel compito di far domande alla gente che riusciva a portare a termine senza problemi.

      «Prima di lasciare la sua vecchia casa, o anche negli anni seguenti, è rimasta in contatto con lui?».

      «No», risposi. Ma mi pentii e quindi mi corressi subito, «O meglio si, ma raramente».

      «Non sentivate il desiderio di incontrarvi, di parlarvi, di raccontarvi come trascorrevate le vostre giornate?».

      «Ma lei è un agente o uno psicologo?», esclamai. Il mio livello di sopportazione era stato abbondantemente superato già da un po’ e un fiume più grosso dei suoi stessi argini non può continuare a contenere l’acqua facendola muovere lungo il suo percorso senza spargerla intorno e seminare morte e distruzione.

      «Entrambi, in effetti. La prego Melanie, risponda alle mie domande. Ci saranno d’aiuto per chiudere il caso. Confido nella sua collaborazione anche se mi rendo perfettamente conto del momento difficile che lei sta vivendo».

      Non aveva capito proprio nulla. Ma mi rassegnai come sempre e risposi alle sue domande, con distacco, come se davvero non me ne importasse nulla.

      «Dal giorno in cui lasciai quella casa non ebbi più nulla da spartire con mio padre. Presi in mano la mia vita, le mie cose e me ne andai. Trovai questo piccolo appartamento dove ora vivo e un lavoro come infermiera in ospedale. Cominciai a diventare autonoma, tutto sembrava andare bene. Mio padre di contro poté riprendere in mano la sua esistenza, senza avere più una figlia tra i piedi da mantenere. Non ci cercavamo prima, quando ancora vivevo con lui, non ci siamo mai confrontati. Per quale motivo avremmo quindi dovuto farlo dopo la mia partenza?».

      «Capisco. Prima di lasciare la casa, aveva mai notato qualche cosa che non andava in suo padre o che potesse avere qualche problema per qualcosa con qualcuno?».

      «No, non che io sappia agente. No».

      «Grazie Melanie. Vorrei chiederle qualche cosa riguardo sua madre ora, se non le dispiace».

      In realtà mi dispiaceva eccome! Non volevo disturbare ancora mia madre, era stata disturbata già troppo a lungo durante la sua vita. Temetti le domande che avrebbe potuto farmi ma accettai di sottopormi anche a quell’interrogatorio.

      «Sua madre Jane si è tolta la vita nel 1951. Agli atti ci risulta che fu proprio lei a ritrovare il corpo senza vita al suo rientro dal college. Conferma?».

      «Si, confermo. Mia madre mi consegnò il mazzo delle chiavi di casa per la prima volta proprio quel mattino».

      «Quindi è chiaro che sua madre aveva premeditato il suo gesto, non fu solo l’impulso di un momento».

      «Si. Credo di si…».

      Risposa sbagliata, Melanie!

      «Si. Potrebbe parlarmi del rapporto che c’era tra lei e sua madre e tra sua madre e suo padre per favore?».

      Scacco al re. La regina era stata mangiata. Non fiatai, provai a rinchiudermi nel mio guscio cercando la via più breve per entrarci. Ma il guscio era rimasto aperto e l’uomo mi vedeva, mi seguiva, mi brancava e mi tirava fuori. Ogni volta, non avevo scampo. Mentire, meglio continuare a mentire.

      «Mia madre era malata. Non era una madre cattiva, al contrario! Ma era debole e la sua testa molto spesso l’abbandonava. La sentivo spesso piangere la notte ma io ero troppo piccola per aiutarla».

      «Capisco. Agli atti risulta che si sentiva spesso suo padre gridare e che molto spesso rientrava in casa a tarda notte completamente ubriaco, è così?».

      «Si, è capitato».

      «E’ capitato, va bene. Questo ha influito secondo lei sul gesto estremo compiuto da sua madre?».

      «Non lo so, ero troppo piccola, glie l’ho detto».

      «Melanie, quando sua madre è morta lei aveva ventidue anni, non era piccola».

      Si sbagliava. L’animo di mia madre era già morto stecchito parecchi anni prima, quello che restava e che io avevo trovato freddo e immobile immerso nel suo stesso sangue era solo l’involucro del suo fantasma.

      «Agente, sono molto stanca ora», replicai cercando di imboccare l’unica via di fuga che mi rimaneva.

      «Capisco Melanie, capisco. Le chiedo solo di rispondere ad un’ultima domanda per favore. Come sono continuati i rapporti tra lei e suo padre dopo la morte di sua madre, prima che lei lasciasse la casa?».

      Nel letto, a suon di botte nel cuore della notte! Ecco com’erano continuati i nostri rapporti. Le bestie che andavano al macello ricevevano più rispetto di quanto non ne avessi ricevuto io, perché